“Lo potevo fare anch’io” di Francesco Bonami

di / 7 giugno 2010

Lo potevo fare anch’io (Mondadori, 2009) è un agile libretto di Francesco Bonami che affronta una questione sempreverde: l’arte contemporanea è davvero Arte? Bonami cerca di spiegare per quale motivo si debba rispondere con un sì, e per farlo si rivolge ad un uditorio di non addetti ai lavori, o meglio «distratti ai lavori», come lui stesso scrive nell’introduzione, ossia a chi l’arte interessa abbastanza da vedersi una mostra scevro dall’angoscia di problemi intellettuali senza capo né coda.

Il libro passa in rassegna tutte le maggiori personalità dell’arte contemporanea, da Duchamp, Warhol, Kounellis, Basquiat, sino a Bacon, Christo, Cattelan e Hirst.  Bonami vuol mostrare come non contino tanto i risultati che l’artista può raggiungere: l’arte vera è fatta anche di opere brutte e disgustose; di feci umane inscatolate, di tele tagliate o tappezzate di mosche e vetrine di mucche sezionate; o anche di apparenti prese in giro, ad esempio quadri completamente bianchi, orinatoi e vecchi portoni firmati ed esposti come autentiche sculture. Ciò che invero conta è l’Idea, con la i maiuscola, e quell’universalità che dell’Idea è il puro distillato. Solo da un’Idea universale nasce la vera Arte. Per spiegare il concetto, l’autore si serve d’una efficace analogia frutticola: «Non basta dipingere una mela che riproduca realisticamente quella dell’albero o del fruttivendolo, occorre saper fare quello che di invisibile sta dentro, non il baco ma l’anima della mela, i suoi mille significati, quella mela universale che non c’è bisogno di vedere per sapere cos’è».  Ecco l’oceano che divide pittori della domenica da menti geniali e prolifiche.

Il libro ha la sua utilità; chi volesse farsi un’idea degli artisti contemporanei, defunti o no, potrà ben servirsi degli specimen biografici che costituiscono la polpa dello scritto. L’annosa (ma direi secolare, o addirittura sempiterna) querelle se l’arte contemporanea sia davvero Arte, però, Bonami in realtà vuol poco toccarla. Del resto, probabilmente, l’incomprensione generale non rappresenta il vero problema di un fenomeno che invece sembra riscuotere sempre più grandi successi di pubblico. Le “affinità elettive” tra arte ed economia (Benedetto Croce si rivolterà nella tomba!) sono sempre più strette, e su questo fatto basterebbe leggersi un’interessante raccolta di saggi della studiosa Barbara Rose, edita da Scheiwiller nel 2008 con il titolo Paradiso Americano, secondo cui le leggi di mercato dominerebbero gli artisti più di quanto faccia l’effettivo talento.

Ciò di cui oggi più avremmo bisogno sarebbe una riflessione su come l’Arte spesso finisca per collimare tragicamente con la parola “astuzia”; come essa sia sempre più alla mercé di persone che s’interessano maggiormente dell’estetica di banconote e assegni piuttosto che della qualità effettiva di un prodotto artistico. Un’era in cui tutto è stato esperito e dove la creatività viene misurata sulla capacità del genio di turno di stupire il mondo, attende invece  un ritorno: qualcuno che, lontano dal rombo delle metropoli americane e dai templi stipati di mercanti, bisognoso di silenzio e quiete, riallacci ponti con quel che c’è di più intimo in lui  e, anche solo per poco, si bagni con quella pioggia dorata che Musil definì «feconda omerica semplicità».

(Francesco Bonami, Lo potevo fare anch'io. Perché l'arte contemporanea è davvero arte, Mondadori, 2009, pp. 166, euro 9,50)

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