“Il gigante buono” di Lorcan Roche

di / 26 ottobre 2010

Nel caso di Trevor non si può negare che le dimensioni contino, ma non ci si aspetti di ridere o deriderlo per questo.
Irlandese in cerca di lavoro (o di sé?) nella "Grande Mela", il protagonista de Il gigante buono, primo romanzo di Lorcan Roche, tra l’altro giornalista e drammaturgo anch’egli irlandese e con alle spalle un’esperienza newyorkese, veste infatti i panni di un uomo, tanto gigante nelle dimensioni, quanto buono (non buonista!) nelle intenzioni, come indica il titolo, almeno nella sua versione italiana.

Individuo forte, gentile, premuroso e amante della musica rock, come puntualmente richiesto dall’annuncio pubblicato sul Voice, Trevor sarà infatti il candidato perfetto per assistere Ed, giovane di buona famiglia affetto da distrofia muscolare in fase terminale.

In un continuo gioco di rimbalzi e permeazioni fra la realtà – quella che puzza di morte e che sa di sconfitta, che rompe le ossa in un vicolo per un detto di troppo e che, come per il protagonista, non offre grandi alternative alla fuga, seppur temporanea, dalla propria realtà – e l’invenzione – quella che crea scenografie e dètta copioni di scene, tagliate dal regista al momento del montaggio, più per mancanza di tempo, che per reale inadeguatezza o incongruenza con la trama – Trevor-Roche è schietto, mai frenato nei pensieri e nelle esternazioni, è diretto ed esplicito, provocatorio e irriverente, cinico e disilluso, sostenuto com'è dall'umorismo spiccatamente Irish dell’autore e da frequenti incursioni musicali e cinematografiche che strizzano l’occhio allo scanzonato Nick Hornby.
Ed è in questo, più che nelle sue grandi mani, che sta la vera forza del gigante dal passato irrisolto e burrascoso e dalle relazioni personali conflittuali, a cominciare da quelle con i diversi componenti della propria famiglia – fatta eccezione per la madre, a lui affine per sensibilità ed estro –. Gigante che, nella città di New York e nelle sue contraddizioni e miserie, fa esperienza di una sorta di autoanalisi. 

Trevor con Roche, anch'egli, in passato, assistente di un ragazzo malato di distrofia muscolare, testimone affabulatore del mondo che si srotola fuori la finestra del lussuoso appartamento in Madison Avenue, non compiange né reprime la malattia, bensì l’accetta come si fa con un lavoro, perché di lavoro almeno stavolta nella sua vita si tratta e, non potendola mutare, l’abbraccia come fa con Ed, quando lo solleva e lo assiste nei movimenti quotidiani, assicurandogli il contatto epidermico, oltreché clinico, che contrasta la solitudine e sa di vita quanto le sue storie di accompagnatore, più che di badante, come suggerisce l’originale titolo “The companion”.

Senza mezzi termini un libro per ridere e per piangere.

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