“Un gioco da ragazze”. Intervista ad Andrea Cotti

di / 12 novembre 2010

La “loro normalità” diventa sempre più densa di stimoli, incalzante, arricchita da nuovi e scioccanti elementi costitutivi. Gli adolescenti di oggi sono sottoposti a un bombardamento mediatico attraverso lo schermo televisivo. Vengono affascinati da modelli di vita apparentemente perfetti,  ma sempre più lontani  dalla difficile realtà di tutti i giorni. La sponsorizzazione e la commercializzazione della bellezza esteriore, e di quella soltanto, di quella prima di tutto, si deve confrontare col sacrificio della vita reale. Il distacco nel rapporto familiare tra genitori e figli viene troppe volte sostituito dalla leggerezza dell’eccesso, dall’azione spregiudicata, dall’invito alla ricerca dell’emozione che ferisce, che brucia, che non ha più sapore, ma che invece si aggredisce a morsi. Sentiamo poi: la curiosità di crescere in fretta e di crescere male. I ritmi frenetici. L’impoverimento del linguaggio e la conseguente incomunicabilità. La tipica  opposizione di generazioni distanti, la noia, la dilatazione della dimensione del gioco, visto come azzardo, lotteria, ricerca del brivido più che divertimento in sé, socializzazione, oppure sfida  sportiva… fino ad arrivare all’impazienza dei giovanissimi di diventare indipendenti, portata alle sue conseguenze più estreme. Tutti questi fattori insieme intensificano il ripetersi di fatti di sangue.  Gli episodi violenti non trovano più, come nel passato, una ragione unica nel disagio sociale, imputabile a patologie circoscritte da forti problematiche o da esistenze deviate, ma sempre più tali fatti esprimono formule di ribellione, scatenate dalla paura, dal’incontrollabile potere della modernità affidata a menti ancora immature, in alcuni casi incapaci di gestirsi completamente. Alcuni bambini diventano capaci di uccidere,  di mentire con freddezza, di  premeditare e infine di attuare delitti atroci, trasformando il gioco in violenza.  La normalità diventa troppo spesso barriera, scudo, superficie sotto cui mascherare alcune tra le pulsioni più recondite dell’animo umano.  In un contesto di pellegrinaggi macabri, in cui si organizzano gite sui luoghi dei delitti pubblicizzati al telegiornale, o di scuole dove si installano metal detector per evitare che gli studenti entrino armati, si colloca la letteratura e il genere noir.

Da sempre la letteratura è forma ed espressione della modernità, a volte anticipa i contenuti, approfondisce la riflessione e diventa parte del mondo che descrive. In questo ambito si pone la storia di Andrea Cotti (Un gioco da ragazze, Mondadori). Scritta prima di Perugia e dell’omicidio di Meredith Kercher, scritta prima dell’ultima tragedia di Avetrana in cui ha perso la vita Sarah Scazzi, ci riporta alla dolorosa scoperta della nostra peggiore contemporaneità.

Nella villetta di una tranquilla cittadina di provincia si consuma un delitto efferato. Una famiglia rispettabile viene spezzata dalla tragedia più feroce. La polizia trova Elena Flores sgomenta, lei è l’adolescente che ha appena assistito all’omicidio della sorella maggiore, Lucia, di suo padre Giorgio Flores e di sua madre Serena.  La lucidità delle descrizioni, la rappresentazione dell’attenzione dei Media, attraverso la ricostruzione di articoli di cronaca e dei riferimenti storici al delitto di Cogne o alla storia di Erika e Omar, l’analisi procedurale della polizia, la cura psicologica dei personaggi, sono gli elementi costitutivi di un romanzo moderno e dal ritmo avvincente. Tre corpi massacrati a coltellate. Una famiglia quasi azzerata.  Un’ unica testimone, Elena, sedici anni, visibilmente sotto choc.  Una placida cittadina della provincia italiana benestante sconvolta da un fatto di sangue. Il lettore riscopre la cronaca delle notizie a cui è abituato, cerca di avvicinarsi, pagina dopo pagina, alla dolorosa verità che ha paura di  scoprire.  L’ispettore Giulia Vita è incaricata di seguire le indagini, lotta contro la sua malattia, la sente arrivare… “Comincia con un fastidio sopra l’occhio sinistro. L’occhio si contrae, si indurisce. Poi arriva la prima fitta. Poi una seconda, più lunga. Quindi arriva il dolore, tutto. Un ferro rovente e appuntito buca l’occhio. L’occhio viene strappato dall’orbita. Il dolore è semplicemente insopportabile, qualcosa che il corpo non riesce a contenere. […]”

La combatte… combatte il male dentro e fuori di sé. Non ha una vita perfetta, ma nonostante i mille problemi con cui convive svolge un lavoro minuzioso. Porta avanti le indagini con coraggio. Guida i suoi collaboratori, affronta le sue paure e introduce i lettori nel complesso mondo della polizia. La storia è incalzante, fluida, il lettore assiste con trepidazione alle rivelazioni, agli interrogatori, alla descrizione di un contesto difficile come quello degli adolescenti di oggi. Ci immaginiamo tutti presenti in quella stanzetta buia dove si svolgono gli interrogatori, guardiamo entrare una ragazzina, potrebbe essere nostra sorella, nostra figlia…

“La ragazzina spalanca gli occhi quando li vede entrare tutti assieme nella stanzetta. Cataldo dice qualcosa a Pisano, che esce. Si mette lui al computer. L’avvocato Miserre si siede di fianco alla ragazzina. Giulia Vita le si siede davanti. Mascagni e Pecora rimangono in piedi.

La ragazzina la sta fissando con gli occhi ancora sbarrati.

Che cos’era il gioco?, chiede Giulia Vita.

[…]È la ragazzina la prima a rompere il silenzio. Solleva lo sguardo.

Ma non sono stata io.

Sì, adesso lo sappiamo che non sei stata tu – dice Giulia Vita – Vuoi dirci cosa è successo veramente?”

Andrea Cotti riesce nell’impresa difficile dei migliori romanzi noir, poiché, pur affrontando un tema violento dalle tinte a tratti allucinanti, non scade mai da una parte nell’eccesso della facile moralizzazione, né, dall’altra,  nel gusto della rappresentazione cruenta. Sono la cura per la parola scritta, lo stile agile, le ricostruzioni dei verbali e  gli articoli dei giornali a indurre  il lettore a una riflessione che va oltre la storia. Una critica sia al perbenismo che alla ricerca esasperata dello scandalo e della spettacolarizzazione. In Un gioco da ragazze l’autore riesce nel progetto più difficile: la rappresentazione della nostra realtà. Senza filtri, senza pregiudizi, percorrendo il confine sottile tra “immaginazione” e “realizzazione” Andrea Cotti lascia sempre socchiusa la porta della speranza, perché  la gioventù ha nella sua curiosità e nei suoi interessi, nonostante tutto, il nostro domani.

Intervista all’autore

Andrea Cotti è nato a San Giovanni in Persiceto (BO).  Attualmente vive tra Crevalcore (BO) e Roma. La sua produzione letteraria spazia dalla poesia alla narrativa per ragazzi, alla narrativa non di genere e al noir. Collabora con la televisione e ha curato parte delle trasposizioni cinematografiche dei suoi libri. Dall’idea di “Un gioco da ragazze”, Mondadori, si è ispirato il film di esordio di Matteo Rovere, presentato al festival di Roma del 2008, e da “Stupido”, Rizzoli, è tratto il film “Mare piccolo”, diretto da Alessandro Di Robilant (festival di Roma 2009).

La produzione più recente di Andrea Cotti  propone come elemento distintivo la descrizione del degrado adolescenziale di cui ogni giorno giungono nuove e più dolorose notizie di cronaca.
Il sito con gli aggiornamenti sui suoi progetti è:  http://www.andreacotti.eu/

Andrea Cotti scrive per…

Scrivo perché è l’unica cosa che so fare bene. E fare una cosa che ti viene bene, che ti da piacere, e qualche volta pure dei soldi, semplicemente è bello. Di sicuro non scrivo perché ho una visione chiara del mondo e delle cose e la voglio trasmettere agli altri. Al contrario, scrivo per capire le cose, perché le cose del mondo mi urtano e mi confondono. Scrivere è il mio modo per tentare di ordinarle, di decifrarle. E poi scrivere m’arricchisce: nella mia testa incontro tante persone, ci faccio amicizia, ci litigo, m’innamoro, le seguo nei loro luoghi che diventano i miei, divido la mia vita con la loro. Alcuni bambini hanno un amico immaginario? Beh, io ne ho tanti

Spesso nell’evoluzione  di un romanzo i personaggi prendono il sopravvento sull’autore, andando in una direzione anche molto distante da come lo scrittore aveva immaginato inizialmente. Il percorso, se c’è, di quale personaggio di Un gioco da ragazze ti ha stupito di più in positivo, e quale in negativo?

Il personaggio che in assoluto mi ha più stupito è l’avvocato Miserre. Doveva essere viscido, subdolo, senza morale – e in effetti lo è. Ma alla fine mi è risultato sorprendentemente simpatico. E semmai dovesse tornare in una mia storia, potrebbe riservare altre sorprese. Invece non immaginavo che Elena Flores sarebbe stata così cattiva e allo stesso tempo così vuota. Non pensavo che avrebbe usato Davide in quel modo: senza scrupoli, senza un minimo di pietas.

Quanto conta la speranza nel genere noir? Penso per esempio al tuo romanzo “Stupido”, il libro in cui proponi Tiziano, un ragazzo diciassettenne, che ha difficoltà a controllare la rabbia che lo invade come una febbre, ma che nella sua vita scopre i libri, il profumo di talco e latte della sorellina, e il sorriso di una ragazza della sua età…

Bella domanda! In teoria nel noir non c’è speranza, è un genere che non porta a soluzioni/assoluzioni finali, come invece succede nei gialli, le storie sono raccontate dal punto di vista delle vittime o degli aguzzini. Sono storie cupe, amare, dolorose. Ma forse non è così vero che nel noir non c’è speranza. O che non dovrebbe/potrebbe esserci. Per quello che mi riguarda, ho scritto romanzi di tutti i tipi, per ragazzi e per adulti, di genere e non di genere. E molti altri sono rimasti nel cassetto. Quasi tutti quelli rimasti nel cassetto sono i più cupi, duri e senza luce. In quasi tutti quelli che ho pubblicato – compreso Un gioco da ragazze – c’è almeno una scintilla di vita. Forse – appunto – di speranza. Quindi, secondo me, come in una ricetta, si tratta di dosare gli ingredienti, e una spruzzatina di speranza da un buon sapore anche alle storie più terribili.  E poi, se ci si pensa, le storie soltanto dolorose ci danno poco o nulla – il dolore lo conosciamo bene tutti. Quello che non sappiamo è cosa c’è oltre quel dolore, e come arrivarci.

Da dove nasce l’ispirazione per un nuovo romanzo? Parti da uno sguardo, dalla caratterizzazione di un personaggio, dalla stesura di una pagina o di un capitolo? Segui delle regole precise scrivendo oppure non esistono regole per iniziare un nuovo progetto?

Non so bene da dove nasce l’ispirazione per un nuovo romanzo. A volte è un’immagine, a volte una frase, a volte una cosa letta, o una notizia sentita alla televisione. Molto più spesso è l’incastro tra tutte queste cose che fa scattare la molla – che inizia a diventare una storia. Quello che so è che per cominciare un romanzo ho bisogno di cominciare a scrivere. Come dicevo poco più sopra, ho bisogno di scrivere per capire. Anche per capire cosa sto scrivendo, ho bisogno di scrivere. Magari solo 5 o 10 pagine, per vedere se c’è un ritmo, se i personaggi hanno una voce… Poi, scaletta! Tante scalette! E appunti. Una prima stesura. Riposo. Una seconda stesura. Ancora riposo. Una terza (e si spera ultima) stesura da consegnare all’editore. Solo nel caso del nuovo romanzo che sto terminando in questi giorni, questa procedura è cambiata. Per tre mesi – per varie ragioni – non ho potuto scrivere, ma avevo una storia in mente. Allora me la sono raccontata tutta nella testa, quella storia, e dopo, quando ho potuto rimettermi al computer, si è trattato solo di scriverla.

Sulla copertina di Un gioco da ragazze spicca la frase di Carlo Lucarelli: “Questo romanzo è uno specchio nero che riflette le ombre più cupe e inquietanti di ciò che ci circonda ogni giorno.” Cosa pensi dei ragazzi di oggi, se volessi dargli un consiglio cosa diresti?

Dei ragazzi di oggi penso che siano come tutti gli altri ragazzi dall’inizio del mondo. Timidi, impacciati, insicuri, arroganti, incasinati…  Si innamorano e soffrono, si sentono fuori luogo, inadatti… Ma più degli altri, i ragazzi di oggi sono bombardati da immagini, notizie, pubblicità. comunicazione. Internet, soprattutto. Un assedio confuso e violento che li sfianca, li svuota.  Senza voler sembrare troppo vecchio, a loro consiglierei più cinema e meno dvd,  più telefonate e meno chat o sms, più “struscio” sotto i portici a guardare le ragazze e i ragazzi, e meno video di youtube, più partite di calcio tra amici e meno play-station. Non solo questo, o quello. Ma più questo, e meno quello. Ma soprattutto consiglierei loro di essere curiosi. La curiosità ti fa sembrare bello, ti sveglia il cervello, ti rassoda i muscoli, e ti salva la vita.

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