Lorenzo Calogero: Verso “La città fantastica”

di / 21 febbraio 2011

Il 25 marzo 2011 cade il cinquantesimo anniversario della morte di Lorenzo Calogero, data importante per consolidare una memoria “rischiarata” e affrancata dai lunghi silenzi, dai rifiuti, dalle incomprensioni, dalle storpiature (tutti elementi che si sono abbattuti nel corso dei decenni sul poeta e sulla sua opera); per ricordare uno stile poetico che affonda radici profonde nell’humus della tradizione letteraria europea, come il romanticismo, l'orfismo, il simbolismo, l’ermetismo; «un’incrocio di tendenze» che si evolve in un modo “personalissimo”, nonché unico, nel panorama storico della poesia italiana del Novecento.

Non sembrano esserci accadimenti particolarmente eclatanti o straordinari tra i fatti emersi dalla biografia del poeta. Calogero nasce a Melicuccà, in provincia di Reggio Calabria, il 28 maggio 1910. Sin da ragazzo si appassiona alla letteratura e alla poesia, anche se viene indirizzato da subito a compiere studi scientifici. Pubblica a sue spese nel 1936 la prima raccolta di poesie Poco Suono . Nel 1937 si laurea in Medicina a Napoli e poi ottiene l’ abilitazione per l’ esercizio della professione a Siena. Lavora per alcuni anni nella provincia di Reggio Calabria ma non è soddisfatto, infatti abbandona il lavoro nel 1945, ritorna a Melicuccà dedicandosi pienamente alla poesia, e si fidanza con Graziella, una studentessa di Lettere di Reggio Calabria. La relazione, che dura cinque anni, finisce e Calogero vanamente cerca di ristabilirla con lettere intensissime e disperate; un colpo durissimo per il poeta, già in precarie condizioni di salute. Negli anni precedenti aveva scritto a Bargellini e Betocchi con l’intento di promuovere le proprie opere, e continua a mandare i suoi quaderni di poesia a molti scrittori e poeti, editori e uomini di cultura, ma l’esito è sempre negativo. Nel 1954 si reca presso Einaudi prima a Milano, poi a Torino, ma non riesce ad incontrarlo e non recupera i propri manoscritti inviati precedentemente. Nello stesso anno consegue l’incarico di medico condotto ad interim nei pressi di Campiglia d’Orcia, però viene dimesso appena un anno dopo con una delibera comunale. In questo periodo e in soli undici giorni scrive l’opera ancora inedita Avaro nel tuo pensiero. Sempre nel 1955 fa pubblicare presso la casa editrice Maia di Siena, ancora a sue spese, Ma Questo…, opera che suscita l’interesse di Leonardo Sinisgalli, il quale scrive la prefazione alla successiva raccolta Come in dittici, edita nel 1956 come anche Parole del Tempo. Peraltro il 1956 è un anno assai nefasto per Calogero, che viene ricoverato per la prima volta nella clinica "Villa Nuccia" a Gagliano di Catanzaro, dove tenta per la seconda volta il suicidio (il primo tentativo risale al 1942).Tornato a Melicuccà, perde la madre e viene ricoverato nuovamente nella stessa clinica. Nel 1957 vince il premio letterario "Villa San Giovanni". Nonostante il prestigio di tale premio, gli editori continuano a non interessarsi della sua opera. Il 1958, in seguito al terzo ricovero, viene trascorso dal poeta interamente a "Villa Nuccia". Di questi ultimi anni sono le poesie di Sogno più non ricordo e la gran parte delle liriche di Quaderni di Villa Nuccia, opera che sarà così intitolata ed inserita dal curatore Roberto Lerici nell’edizione postuma del primo volume di Opere Poetiche del 1962.

Durante l’ultimo lungo ricovero protratto fino ai primi mesi del 1959, Calogero si innamora di un’infermiera, Concettina. Ritorna poi nella solitudine di Melicuccà, e nel 1960 scrive a Vittorio Sereni una preziosissima lettera-saggio in cui sono argomentati tutti i punti cardini della sua poetica. Sempre nello stesso anno si reca a Roma da Sinisgalli per ricoverarsi al Policlinico, conosce Giuseppe Tedeschi, colui che scriverà la prefazione del primo volume di Opere Poetiche raccontando di questo incontro. Dopo due giorni Calogero abbandona le cure e fa ritorno a Melicuccà continuando a vivere da solo nella sua casa natale, dove viene ritrovato morto il 25 marzo 1961, forse suicida. E questa ipotesi sembrerebbe confermata proprio dall’“Inno alla morte” , una poesia rinvenuta nell’ ultima pagina di un quaderno trovato sulla scrivania, e da un biglietto accanto al corpo con scritto: «Vi prego di non essere sotterrato vivo».

Un’esistenza vissuta sempre ai margini, quella di Calogero, intrisa di solitudine e sofferenza, ma non priva di affetti, rari e intensi: come quello nutrito nei confronti della madre, e quello maturato dall’amicizia con un altro poeta, Leonardo Sinisgalli. Sovrastante qualsiasi relazione umana c’è la grande passione per la poesia, con cui Calogero insegue le ragioni stesse della propria esistenza. Seppur in modo discordante, sperimenta una “gioiosità” dello scrivere, tentando di colmare un vuoto esistenziale, traducibile in un forte bisogno di amore che, schermato invano da una ricerca espressiva puramente informale, esplode in tutta la sua irruenza nelle ultime raccolte poetiche. Solo nella figura indefinita di una «Città fantastica», luogo (non-luogo) della poesia, Calogero riesce a saturare un tale vuoto, traendo sollievo. Ma una voragine fatale si riapre nell’animo vacillante del poeta quando trova convincimento in maniera definitiva dell’irrealizzabilità delle proprie immagini poetiche, soprattutto di una in particolare: quella della donna, il «tu» femminile in cui il poeta riflette se stesso e la propria necessità di amare e di essere amato. Si tratta del desiderio, mai realizzato, di poter vivere una vita piena, che Calogero ha sempre inseguito assieme alla speranza di vedere pubblicate le sue opere presso una casa editrice di rilievo.

Nel poeta c’è coscienza sia della realtà dell’esistenza, sia dell’irrealtà dell’invenzione poetica. Tale coscienza risulta però aggravata da una vera e propria dicotomia tra un io empirico e un io poetico. Due infatti sembrano “le vite di Calogero”: una “esteriore”, quella dell’uomo, e una “interiore”, quella del poeta. Si mantiene stabile un perenne conflitto dolorosissimo – fondamentale per le dinamiche stesse della poesia – che genera un’eruzione d’immagini impressionante: l’arte arcana incantatoria di Orfeo in una poesia elevatissima che culmina in un lungo canto d’amore e di morte. La raccolta Parole del Tempo, del 1956, raggruppa le opere giovanili del poeta, risalenti agli anni trenta. Tali versi sono considerati di “apprendistato”in questo primo periodo. Si ravvisano l’influenza di poeti come Leopardi, Campana e Ungaretti e la prevalenza formale del modello ermetico. Inoltre si rende evidente una tendenza del poeta, assorto in “attesa”, a cogliere l’assoluto. Sono tuttavia già presenti i motivi archetipici e quelle parole – «segno» , nuclei fondanti di tutta l’opera di Calogero e della sua tipica scrittura poetica ramificante, di natura astratta ed informale, definita da Sinisgalli come «arabesco». Ogni poesia è da considerarsi come un’intelaiatura in cui le singole parole, connesse tra di loro da rapporti multipli di tipo fonetico e semantico, non sono atte alla descrizione, bensì all’allusione di una miriade di sensazioni imprecisate e discontinue, che si rispecchiano del tutto nella caratteristica frammentarietà del verso e complessivamente dell’intero corpus poetico calogeriano.

Nella fase più matura della poetica, la ricerca di un senso assoluto da individuare nella poesia, e ancor di più nella vita, si sfalda con la presa di coscienza dell’impossibilità di poter riconoscere una verità oggettiva. Viene meno infatti quella fiducia nel linguaggio, inteso propriamente come casa dell’essere, che ha contraddistinto la poetica giovanile, quando Calogero, in linea con il pensiero filosofico di Heidegger, sperimentava attraverso la poesia l’«essere gettato» nella verità dell’essere. Si acuisce un senso di smarrimento: le immagini tipiche di una staticità millenaria, in cui si concentrava maggiormente il senso dell’eternità, diventano, durante questo «secondo tempo», effimere, claudicanti, e, soprattutto, invisibili, tali da rendere il poeta stesso cieco nel buio metafisico della poesia, che ha come fine non più una meta, bensì la sola erranza. A livello formale la scrittura poetica di Calogero assume un’espressività sempre più «ridondante» e «autoproliferante», che può essere notata già a partire dall’ultima poesia di Parole del Tempo, “Viaggi sotterranei”, in cui prende forma per la prima volta anche l’immagine della «Città fantastica».Questa svolta decisiva segna un punto di rottura con l’ermetismo a vantaggio di una poesia più fluente e dal senso inconcluso, con l’aggiunta di una componente narrativa e accumulativa. Viene a determinarsi da Ma questo… il pieno assorbimento del poeta nella dimensione astratta del sogno, che manifesta una prima forte crisi in Avaro nel tuo pensiero (inedito). Nella frammentarietà dei versi, e nell’irregolarità metrica di Come in dittici, c’è la fusione monologante dell’io poetico con il «tu» femminile delle immagini. Sogno più non ricordo, invece, si caratterizza maggiormente per il rifiuto della memoria, colpevolizzata e radiata, perché inserisce nella poesia elementi pertinenti del reale, quest’ultimo del tutto estromesso in tal modo dal non – luogo onirico creato dai versi. In Quaderni di Villa Nuccia, opera curata da Roberto Lerici, sono raccolte le poesie scritte durante il ricovero a "Villa Nuccia" e dopo il definitivo ritorno di Calogero a Melicuccà. Attraverso una formalità espressiva metricamente più regolare, il poeta gioisce liberamente dell’intenso canto d’amore innalzato in queste liriche, che vanno a costituire un vero e proprio canzoniere. Ma nelle altezze di questo suo ultimo volo, Calogero rimane atterrito dalle vertigini provocate da un sempre più crescente senso di vuoto. Il «tu» femminile in quest’opera assume una maggior concretezza, anche considerando l’infatuazione del poeta, sorta a "Villa Nuccia", per l’infermiera Concettina. Proprio questa voglia d’amore, che presenta una maggior tensione alla fisicità, resta inappagata e irrealizzata per il poeta ritornato solo a Melicuccà. La fatale incompiutezza di un’immagine, voluta di carne, e quindi donna, e la sempre più indissolubile solitudine fanno precipitare il poeta verso la morte.

Nel 2000 nasce il Progetto Calogero, un prezioso e appassionato lavoro di ricerca e di rielaborazione della poesia di Lorenzo Calogero, ideato da Nino Cannatà e dal "Gruppo Sperimentale Villanuccia". Si tratta di un’iniziativa, già decennale, che, partendo dalla realizzazione del primo sito-web dedicato al poeta: http://www.lorenzocalogero.it (al quale si rimanda per la lettura delle poesie), attraverso la collaborazione di critici letterari e degli eredi di Calogero, sviluppa tecniche e linguaggi artistici coerenti con l’opera poetica calogeriana affinché sia reso realizzabile “il sogno”del poeta, ovvero quella «Città fantastica», una sorta di wagneriana opera totale in cui sia possibile mettere in “inter-comunicazione” arti visive, pittoriche, musicali, poetiche e teatrali:

«… intendendo con tale titolo di designare la possibilità di una capacità espressiva che avesse quasi del fantastico (…) Pensando a quel titolo e pensando alla possibilità di una espressività intercomunicante, che del resto non era affatto nelle mie capacità, pensavo anche «quasi» ad una città del tutto notturna, dove ogni punto di essa fosse in relazione e comunicante con tutti gli altri (…) si affidava solo alla possibilità, tacitamente sottintesa in me, che potesse esistere una capacità espressiva (capacità ed anche possibilità che non erano mie, ma che ove si realizzassero avrebbero potuto dare una poesia di primissimo ordine) intercomunicanti fra tutti gli elementi attraverso i quali si esprime qualche cosa».

La poesia di Calogero manifesta chiari riferimenti espressivi pertinenti al proprio contesto storico, ma il suo messaggio poetico può essere considerato nell’ottica di una sua valenza universale. Un lirismo dicotomico da riproporre in un quadro critico letterario attuale volto alla negazione dell’io lirico. La testimonianza lasciata dal poeta è quella di una vita dedicata interamente alla poesia, in cui permane sempre vivo e lacerante il peso di tale scelta. Si offre l’invito ad intraprendere un viaggio nella poesia di uno degli ultimi e rari figli di Orfeo, Lorenzo Calogero, la cui opera è dettata da un’umanità sospesa e messa a nudo, continuamente rivestita e spogliata di fugaci immagini. Nel non-luogo, cieco e sordo, il poeta sogna folgoranti suoni e bagliori di una «Città fantastica»: la visione di una poesia altissima che smuove il limite invalicabile di un vuoto irresolubile, a cui sottostà l’innata incompiutezza dell’animo umano, pregno da sempre di quella latente in-comprensione a cui, vanamente e spesso, si cerca di scampare.

 

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