Intervista a Giorgio Nisini, autore de “La città di Adamo”

di / 11 marzo 2011

Intervistiamo Giorgio Nisini, autore de La città di Adamo (Fazi, 2011) e, soprattutto, uno degli scrittori più interessanti della nuova narrativa italiana.

Ciao Giorgio, innanzitutto grazie per l’intervista e complimenti per questo secondo romanzo che sta ricevendo così tanti consensi. Dove e da cosa nasce questo La città di Adamo?

Nasce da moltissime sollecitazioni, come ogni mio libro. Volevo raccontare la storia di un figlio che inizia a dubitare del padre, volevo costruire un giallo morale in cui il protagonista si trasforma in detective di se stesso e del suo passato. E poi volevo raccontare la storia di una coppia, Marcello e Ludovica, ossessionata dal bisogno di apparire a tutti i costi vincente, ricca, affascinante, felice.

Le aspettative che c’erano su dite, dopo La demolizione del Mammut (Perrone, 2008), ti hanno pesato?

No, assolutamente. I consensi ricevuti con il primo romanzo sono stati fondamentali per spingermi ad andare avanti.

Perché la “linea d’ombra” che divide il bene dal male l’hai voluta riempire con un fatto di camorra? Per ricordare che non bisogna mai distogliere lo sguardo?

La camorra m’interessava in quanto possibile rappresentazione del male, all’origine il libro era ambientato a Palermo e prevedeva un personaggio molto diverso da Adamo. Semmai m’interessava raccontare una storia in cui il confine tra colpevolezza e innocenza fosse difficilmente distinguibile, ma soprattutto fosse difficilmente distinguibile quello tra bene e male. Per questo Adamo, il boss, è un personaggio ambivalente: crudele e cinico, ma anche dotato di un fascino ipnotico da cui Marcello si sente attratto.

Una curiosità: come nasce l’idea del quartiere-città Eurano? Esiste qualcosa del genere o è totalmente frutto di fantasia?

No, Eurano è una città inventata, astratta. Ho provato a pensarla come un insieme edifici cilindrici e cubici, e quindi con una disposizione urbanistica molto geometrica e razionale.  Nell’idearla sono stato influenzato dalla pittura metafisica di De Chirico, Hopper, Verrelli. E poi sono stato influenzato dall’Eur, soprattutto l’Eur di cui parla Fellini in una celebre intervista rilasciata a Luciano Emmer nei primi anni Settanta. Insomma, si tratta di una città molto pittorica e lineare, e questo perché volevo provocatoriamente raccontare la capacità del male – in questo caso un’organizzazione criminale come la camorra – di sapersi organizzare in maniera molto più razionale del bene, o perlomeno di ciò che dovrebbe rappresentare il bene, e cioè lo Stato.

C’è qualcosa di autobiografico nel romanzo?

Al fondo di ogni storia c’è sempre la mia vita: le persone che conosco, i miei scenari, le mie esperienze intese come esperienze del mondo. Nel momento in cui entrano nel romanzo le rielaboro fino al punto di trasformarle in qualcosa di completamente diverso. La biografia è solo il punto di partenza che rende i fatti narrati ancora più autentici, ma in termini di impatto narrativo, più che di contenuti.

Ci spieghi un po’ meglio la questione dei “divani”? Sei un esperto e/o appassionato? Qualche fantasia credo che tu l’abbia accesa…

Vidi la prima volta il divano Boa dei fratelli Campana in un grande showroom. Ne rimasti affascinato. E così ho iniziato a ideare il personaggio di Ludovica, Lulù, come la chiama Marcello: una donna fissata con il design, al punto che riesce a fare l’amore solo sopra mobili firmati. È affetta da quella che chiamo “La sindrome di Lulù”, una strana miscela di esibizionismo, feticismo, efefilia, e cioè attrazione sessuale per i tessuti. Ma in genere è tutta la sua vita ad essere circondata di oggetti di lusso, oggetti  potenzialmente invidiabili da qualcuno, come nota a un certo punto Marcello un po’ polemicamente. Mi sono divertito ad assegnare a ogni parte del libro un sottotitolo che richiamasse uno di questi oggetti: il televisore Brionvega, la lampada Jasper Morrison, il tappeto Agatha Ruiz de La Prada, il divano Boa…

Qualcuno parla del tuo modo di scrivere come di “realismo metafisico”. Ti piace questa definizione? Ti ci trovi d’accordo?

Vista la mia attenzione per la pittura metafisica direi di sì. L’ho già detto in un’altra occasione, i protagonisti delle mie storie sono individui estremamente pragmatici, nel primo romanzo era un architetto esperto in demolizioni edilizie, ne La città di Adamo un imprenditore agricolo: tutti figli di una cultura razionalista, positivista, realista, che però a un certo punto vedono saltare la propria visione del mondo. Il cortocircuito che si crea è il detonatore narrativo del romanzo: la realtà empirica, scientifica, verificabile, viene messa in discussione, e salta fuori una realtà diversa, opaca, sgranata, difettosa, non sondabile fino in  fondo. Ma là dove non c’è la sondabilità c’è per me la metafisica, in senso strettamente etimologico.

Cosa ti aspetti adesso? Sono vere le voci che ti danno candidato al Premio Strega?

L’editore intende propormi allo Strega, ma il percorso è ancora lungo.

Progetti futuri?

Un nuovo romanzo. Già ho qualche idea, ma voglio procedere con lentezza.

Finiamo. In una riga (anche due dai…) prova a convincere un lettore a leggere La città di Adamo.

Non sono un bravo mercante di me stesso, e allora uso le parole di Sergio Pent, che su Tuttolibri ha scritto una bellissima recensione al mio libro: «Il percorso affannoso di Marcello non dà tregua, non annoia, anzi si apre a una visione esistenziale che solo le grandi lacerazioni riescono a causare»

Grazie mille e in bocca al lupo per tutto. A presto…

Leggi la recensione de La città di Adamo (Fazi, 2011)

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