“Simmetrie”. Conversazione con Elio Pecora

di / 25 marzo 2011

Elio Pecora è un nome conosciutissimo per chi frequenta la poesia, un po’ meno per gli altri. Eppure si tratta, a mio avviso, di uno dei maggiori autori del secondo novecento non solo per la lirica. Ma chi è Elio Pecora? Qual è la sua opera a cui è più legato?

Ho imparato assai presto a guardarmi da testimone. Ne è venuta una misura ironica del vedersi e del misurarsi. Ironia come distanza e come equidistanza. Ho vissuto fin dall’infanzia fra persone del tutto calate nelle proprie faccende, e dunque in perpetua ansia per se stesse. Volevo capire che mi succedeva e che succedeva nel mondo che abitavo e traversavo. Da questo forse il bisogno di consegnarmi al lettore sapendo le comuni somiglianze e urgenze e attese e tutto il resto. La poesia è insieme abbandono e controllo, ebbrezza e ragione. Rimane ancora, tra le migliori definizioni, quella di un matematico e letterato del Settecento, Tommaso Ceva:”La poesia è un sogno fatto all’ombra della ragione”. Potrei dire che Elio Pecora è un tale che ha preteso e pretende il rispetto di se stesso e che continua a interrogarsi e a provarsi. Anche uno che continua a credere nell’onestà e necessità delle parole della poesia, che vengono da un instancabile confronto con l’esistenza e s’avvolgono di musiche misteriose anche dove l’intonazione è più limpida. IL mio libro a cui sono più legato? Difficile la risposta. Potrei nominare quello che, dopo anni di scritture rinviate, fu il mio primo libro pubblicato, La chiave di vetro, apparso nelle edizioni Cappelli nel ì1970. Era un libro fra prosa e poesia e accoglieva già i miei temi e le mie urgenze. Vale ricordare che il suo primo titolo era Narciso in pensiero e cambiarlo fu l’unica mia concessione all’editore. Potrei dire anche che al momento sono legato, perché lo porto con me in ogni pubblica lettura e nei miei frequenti incontri con adolescenti e bambini nelle scuole, il mio Favole dal giardino, e la ragione di questa preferenza sta nella strana allegria, in un’estate molto dolorosa, con cui l’ho scritto e, prima ancora, nell’immediata accoglienza dei lettori di età le più diverse. Ma, al dunque, l’opera a cui mi sento più legato è quella che ancora sto “lavorando”.

Qual è, nella sua “storia”, il giudizio che ha ricevuto e che più ha apprezzato? E quello che l’ ha fatto più arrabbiare?

Il giudizio che mi è più caro è quello, non chiesto, che trovai scritto a macchina con inchiostro rosso e con firma autografa, in un libro posato sul comodino di Sandro Penna. Lo rinvenni dopo la sua morte e lo pubblicai come risvolto in un mio libro di poesia, Motivetto, edito da Spada nel 1978. Quanto a un giudizio che m’ha fatto arrabbiare, non paia vanità la mia, non ne ho memoria. Senza dubbio di giudizi nei quali mi sono sentito poco o mal compreso ne ho ricevuti anch’io, ma devo ammettere che sono serviti a farmi riflettere.

Esiste un’ora o un luogo della poesia?

Per me esiste una casa, nel paese dove sono nato e dove torno per qualche mese d’estate. Quella casa ha un giardino e il giardino ha un suo incanto. E l’incanto consiste nel fatto che seduto là, fra fiori e cespugli e alberi, sono sgombro da ogni altro bisogno se non quello di scrivere. Scrivo a matita, su grandi fogli rigati, e con una gomma per cancellare. È un luogo in cui non mi pesano nella mente e nel cuore i rumori, le ansie, e il tanto che Roma, città da me infinitamente amata, mi comunica. Laggiù, nel paesuccio del salernitano, trovo il silenzio e la quiete dai quali attingo i miei umori segreti e le parole e i ritmi che servono a esprimermi. Quasi tutti i miei libri sono stati scritti e composti d’estate e in quel giardino.

Sempre e per sempre poesia… Qual è secondo lei la situazione della poesia oggi? È messa davvero così male? Perché non si legge poesia?

Oggi la situazione non è peggiore di quella del passato. I libri di Penna e di Montale, di Saba e di Cardarelli erano venduti in un numero di copie inferiori a quelle che oggi si vendono quelli di Loi o di Zanzotto, di Cucchi e di Patrizia Cavalli. Certo, fino agli anni Settanta, è esistita una società letteraria e culturale a cui il mondo intellettuale riconosceva autorevolezza; dai pronunciamenti di quella società dipendeva la riconoscibilità dei poeti. Oggi abbiamo una critica letteraria, almeno per quanto riguarda la poesia, priva di autorevolezza e per di più poco presente e pochissimo accorta. Abbiamo in compenso moltissimi versificatori, un numero stragrande di editori che pubblicano a spese dell’autore e tante riviste che, in massima parte, sono fatte ad uso dei propri redattori. Ma la poesia, quella che chiamiamo così, resiste e si mostra a chi sa riconoscerla fuori delle confusioni, delle scuole, dei baratti. Quanto al fatto che la poesia venga letta da pochi e da pochissimi, e nemmeno da quelli che animatamente credono di “farla”, credo dipenda dal suo cattivo insegnamento nelle scuole, dove viene analizzata e spezzettata invece che goduta nella memoria e soprattutto sentita, così come va anzitutto sentita ogni forma d’arte e di espressione. Gli italiani, a parer mio, leggono poca poesia e la rifuggono, perché la poesia chiede al lettore una partecipazione e un coinvolgimento che rivela inquietudini e domande e bisogni tenuti nascosti e temuti come rischi da non correre nella generale superficialità ed ebetudine.

Ha visto i nuovi numeri della collana “Lo Specchio” della Mondadori? Lei che è stato uno dei “prescelti” cosa pensa? È stata una scelta editoriale, quella del formato a fascicoli, giusta o sbagliata (alcuni l’hanno considerata persino quasi offensiva nei confronti della poesia e di una collana così prestigiosa)?

Non li ho visti ancora, me ne è stato parlato. Mi pare un’iniziativa lodevole. Si tratta di dare spazio ai poeti più giovani e presentarli in libretti smilzi, ma singoli è un iniziativa forse migliore dei vari quaderni pubblicati in passato da Guanda, Einaudi, Marcos & Marcos, nei quali stava assiepata una piccola folla di autori più e meno giovani . Sono tuttora del parere, poco condiviso da chi oggigiorno vuole tutto e presto, che anche nella poesia, e soprattutto nella poesia, bisogna avanzare a piccoli passi. Sono per i meriti faticati e per piccoli passi sicuri.

Che consiglio si sente di dare per i giovani poeti che vogliono provare a pubblicare le proprie raccolte? C’è qualche giovane poeta che secondo lei varrebbe la pena di seguire? E qualche collana che secondo lei ha preso una giusta direzione?

Di giovani che scrivono versi ne incontro numerosi e a ognuno consiglio di pubblicare per un certo tempo, più di qualche anno, nelle riviste più attente e valide. Ne esistono anche in internet. Troppo spesso mi è capitato di assistere alle delusioni e ai dispiaceri che vengono da pubblicazioni viste da pochissimi, se non da parenti e amici dell’autore. Invece, il pubblico delle riviste potrà essere poi il pubblico di chi già conoscendo l’autore ne cerca conferma in un libro. Di collane che hanno preso la giusta direzione ne esiste più di una, da Sossella alla Lettere, da Perrone a Empiria,  Ne vengono fuori altre ogni mese: conta la loro resistenza alle varie difficoltà, e conta anzitutto il rigore e nel rigore la costanza di chi decide le pubblicazioni e le vigila con amore e con competenza. Di poeti ventenni e trentenni potrei nominarne alcuni, e sono tanti, che meritano attenzione per qualità di strumenti e qualità di scrittura. Nel penultimo numero della rivista che dirigo ne ho pubblicato diciannove, da Carabba ad Alex Caselli, da Matteo Marchesini a Luca Minola, è quasi un’antologia.

Come sta andando “Poeti e Poesia”? Ci sono novità in vista?

È al ventiduesimo numero e al suo settimo anno. Ha un numero notevole e crescente di abbonati. Lo vedo come un repertorio di quanto la poesia in Italia e nel mondo va compiendo, ma anche come una riflessione critica e una rilettura di poeti trascurati o dimenticati. L’impianto è ancora quello che gli ho dato agli inizi: poeti italiani, traduzioni di poeti stranieri con testo originale a fronte, un poeta del passato da rileggere, una serie di studi e note sulla poesia. Non miro alle novità, ma alle segnalazioni di autori meritevoli. È possibile che io apporti prima o poi delle modifiche, al momento nemmeno le immagino.

Internet può essere una buona vetrina per i poeti? Quali sono i pregi e difetti?

Non vanno trascurati questi nuovi mezzi. Ho già accennato a riviste internet di qualità. Tutto dipende dall’impegno e dalla competenza dei redattori, in grado di scegliere e di promuovere, non di riempire il calderone. Più che mai è necessario possedere il gusto della poesia, e questo viene dal possedere i giusti strumenti: che, alla fine, consistono in una lunga intensa frequentazione con la poesia del Novecento e con quella del passato oltre che con gli scritti dei critici maggiori che educano a vedere più e a sentire meglio.

Il 31 marzo sarà l’anniversario della morte di Dario Bellezza. Che ci può dire di questo poeta forse troppo presto dimenticato?

Un tempo, parlando dei poeti e degli scrittori morti da qualche decennio e della loro dimenticanza, si diceva nel mondo delle lettere che gli era toccato entrare in purgatorio. Valeva soprattutto per quelli dei quali in vita s’era parlato di più. Credo che valga per Dario Bellezza. Comunque, alcuni anni fa ho curato per Mondadori un Oscar con una scelta delle sue poesie e questo libretto è da tempo esaurito. Andrebbero ristampate le sue opere, ma gli editori diffidano. Sono fiducioso nel tempo e già questa vostra domanda e altre che mi si vanno rivolgendo mi assicura che Bellezza non è nell’oblio. Di sicuro molto dipende da chi lo ricorda anche in piccoli eventi. Da parte mia continuo a farlo e noto  che alcuni poeti e critici tornano a interessarsene. Che il suo purgatorio sia alla fine? IL poeta Bellezza resta una voce viva e chiara e inquietante del tempo che abbiamo insieme traversato, ma anche una voce che accerta la durata e la qualità della poesia.

C’è qualche lavoro in cantiere?

Attendo l’estate per tornare nel mio giardino e concludere un libro di poesia iniziato la scorsa estate e nel quale credo molto. Sto vivendo un periodo molto attivo e sono stati appena pubblicati due racconti in versi per bambini da Orecchio Acerbo, un poemetto scritto per mia madre nel 2005, un anno prima della sua morte, dalle edizioni de La Vita Felice, una raccolta di poesie, rimaste finora inedite in volume, che pubblica a Napoli Ciro Vitiello in una giovane collana Oedipus. Un po’ troppo rispetto a un passato più contenuto nel suo darsi. Ma corre il tempo e sgombrare i cassetti di quel che vale la pena consegnare agli altri è forse d’obbligo.

Le andrebbe di suggerire ai nostri lettori tre volumi di poesia di autori del passato?

Subito consiglierei Addio Nebbia di Auden pubblicato da Guanda e di Czeslaw Milosz Poesie nelle edizioni Adelphi. Ma stiamo agli italiani e solo a tre: Sandro Penna, Poesie, Garzanti; Umberto Saba, Il Canzoniere, Einaudi; Margherita Guidacci, Le poesie, edizioni Le Lettere. Sono libri di tre poeti che si sono dati interamente alla poesia e che si consegnano a noi come modelli e maestri. 

Grazie mille, è stato un onore per me intervistarla.

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