La storia di un matrimonio

di / 4 aprile 2011

Pearlie è una donna qualunque. 
Totalmente qualunque. Lo stesso qualunque di chi plana su un banco di scuola e non lascia neanche l’odore di gesso. Nessuno la nota, nessuno si volta e a lei stessa sembra spesso di far rima con nessuno. Abita occhi invisibili e vallate di giorni già scritti.
Finché non arriva un “ e invece”.
Uno sguardo che segue i suoi gesti, che conosce il suo nome e che sceglie di stare al suo fianco.
Quel miracolo si chiama Holland Cook. Troppo bello per volerla davvero? Perché non evapori assieme alla notte? 
Non c’è una vera risposta. Neanche quando Pearlie cambia cognome, per vestire quello che ha sempre amato.
Perché un mattino fra tanti sbarca sull’uscio un viso inatteso. E allora tutto quello che pareva siglato, la pace di mattoni e giardini assolati, il quartiere dove nulla può accadere tranne un ritaglio di giornale, tutto frana di colpo davanti a quella bocca, che le addenta la vita come un pasto promesso. Scaraventandola su un altro pianeta. In cui suo marito diventa un alieno.
Qualsiasi cosa, qualsiasi persona, tranne ciò che lei si aspettava.
Proprio qui prende corpo tutta La storia di un matrimonio, riuscitissimo romanzo di Andrew Sean Greer. 
Prima di tutto perché difficilmente come in questo caso un uomo sa tradurre pensieri in carne di donna, come se realmente potesse intuire o almeno assaggiare la durezza del mestiere di moglie, la sapienza di ogni silenzio. L’abilità di un funambolo col grembiule sul ventre e il sorriso sul piatto. 
La sottile maestria di chi sa che ogni lunga durata si regge su un filo. Come anche l’eterno. Che non cade finché ci si crede. 
Perché l’intera vicenda passeggia leggera su una corda tesissima.
La stessa corda di quegli anni, quel dopoguerra oltreoceano che di guerra sapeva comunque, che poteva impazzire di morte, ancora una volta, che si bardò di altre imprese per firmarle di sangue. 
Il conflitto in Corea, quel respiro di calma che può rompersi senza preavviso, un vaso un po’ in bilico sul davanzale. La paura di dover tornare ad avere paura, di doversi nascondere all’ombra, senza fare rumore. 
Soprattutto per chi in California nel ’53 fosse decisamente, tremendamente “negro”.
Come Pearlie, come Holland, “svelati” dall’autore mentre il filo si dipana. 
Perché prima di avere un colore, hanno un cuore di uomo, un destino alle prese coi suoi equilibri di vetro. Hanno quel filo su cui non scivolare. Quel filo che a ogni pagina si snoda.
Fino a farsi una trama.
Una trama di non detti e di colpi di scena, di turning point limati al millimetro.
Una trama affilata eppure avvolgente, una dolcezza che taglia l’asfalto, una scrittura che non sbava, che non regala mai una riga, un ritmo perfetto, quasi sonoro.
A chiunque potrebbe accadere di non sapere con chi si addormenta.
Ma in pochi di saperlo raccontare. 
 

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