Amore mio, uccidi Garibaldi

di / 9 aprile 2011

Forse ad alcuni di voi sarà capitato, quando ancora non arrivavate alle maniglie delle porte, di aggirarvi per i corridoi della casa dei nonni, attratti e al tempo stesso intimoriti dai severi e polverosi ritratti degli avi.
Nell’incipit, Isabella Bossi Fedrigotti, scrittrice e giornalista di costume e cultura per il «Corriere della Sera», ricorda quando da bambina «Il gioco sulle scale della casa di Sacco era inventare il mestiere di chi ci viveva appeso»: lo zio Nanetto con lo spartito in mano, il conte mugnaio, la donna-uomo «con la scollatura grande e maestosa», il vecchio frate severo e la «spuzeta», ossia la vanitosa. È proprio da questa reminescenza infantile che prende il via la storia del bisnonno, Fedrigo Bossi Fedrigotti, e della bisnonna, Leopoldina Lobkowitz, dell’autrice, raccontata nel suo romanzo d’esordio, Amore mio, uccidi Garibaldi, uscito nel 1980 e ora riproposto, nell’anno celebrativo del centocinquantesimo compleanno della nostra nazione, da Longanesi.

Il conte Fedrigo, che splendido cinquantenne («sul quale non osavamo scherzare»), fa mostra di sé e della sua uniforme blu degli ussari di sottotenente di seconda classe («solo perché non è tipo che comanda») del 9º reggimento nel quadro della casa di Sacco, prima di sposarsi con Leopoldina Lobkowitz, nobile austriaca di origine boema, apparteneva alla nobiltà “povera” di provincia. Veniva infatti da Rovereto, allora cittadina austriaca, ma di lingua italiana, facente parte della contea del Tirolo, che allora, perduta la Lombardia nel 1859, rappresentava «…quasi l’ultima stazione dell’impero, senza più entroterra». Era cioè una zona di frontiera, poverissima, trascurata e dimenticata da chi governava a Vienna. Orfano di padre, con cinque sorelle e cinque fratelli, aveva un patrimonio veramente irrisorio e quel poco che possedeva era gestito dai “temuti zii”, Tonele e Luigia, fratello e sorella. Grazie però alla sua dolcezza, al «bell’aspetto italiano che, nonostante la politica avversa, a Vienna piace» e alla sua calda voce da tenore, benché timido, riesce a conquistare la suocera e soprattutto il principe Ferdinando, padre di Leopoldina. Non si tratta tuttavia del solito matrimonio di convenienza ma di un amore tenero e sincero.
Leopoldina viene descritta e presentata come una ragazza non bella, «…un po’ tonda, alta sì, ma con la faccia delle contadine», ma in compenso è «allegra, pratica, intelligente, non sussiegosa e un po’ pettegola […]. Legge volentieri, romanzi e libri di storia, con piacere, se un po’ scandalosi. Li alterna ad austere vite di santi» e soprattutto porta una dote di 7000 fiorini annui ed è potenziale ereditiera di 30000 ettari di terra. Conosce Fedrigo a un ballo nel 1863.

Il romanzo a due voci è strutturato in tre parti. Nella prima, Un matrimonio povero, troviamo, intervallate da brani narrativi, le lettere di Leopoldina alla madre in cui le racconta, attraverso il suo acuto sguardo, la sua vita nel Tirolo trentino, diviso politicamente fra i fedeli all’imperatore Francesco Giuseppe, «gli austriaci a tutti i costi, nonostante la lingua diversa», e gli «italianissimi», ossia gli irredenti triestini. Nella famiglia di Fedrigo, oltre a lui, erano austriaci, i fratelli Lodovico e Alfonso, italiani, Filippo e Pierino, il primogenito, Beppi invece era incerto, mentre le ragazze erano divise a seconda del partito politico del consorte.
All’inizio Leopoldina è costretta ad abituarsi a uno stile di vita molto austero e a superare le differenze, oltre che linguistiche (Fedrigo parla italiano e dialetto ma un tedesco stentato), anche culturali: «La vita è piacevole. Ceniamo tardi, molto più tardi che da noi, perché qui siamo nel sud, e prima giochiamo un po’ a carte. Un po’ come in un’osteria. Alle nove bisogna dire il rosario perché sono molto di chiesa, in modo vistoso, con la faccia tra le mani e gli occhi al cielo. Anche voi siete devoti, ma con meno passione, un po’ più misurati forse». Tuttavia riconosce che non è «la baraonda italiana che dicevano» i suoi amici di Vienna e di Boemia.
Le ristrettezze economiche e la paura provocata dagli ancora flebili echi di guerra sono messe in secondo piano dall’amore dei due giovani sposi da cui nascono Giuseppina e Fedrighello. La famigliola si sistema a Bloshof nella casa presa in affitto dal cognato di Fedrigo, Wickenburg. Qui Leopoldina deve dire addio agli splendori di Vienna e del suo sontuoso palazzo situato nella piazza intitolata ancora oggi alla sua casata e agli agi delle immense tenute in Boemia.
Ma non si può fuggire la Storia, così allo scoppio della III guerra d’indipendenza, il conte Fedrigo, fedele suddito asburgico, decide di arruolarsi come volontario, nonostante la moglie aspetti il terzo figlio (il nonno dell’autrice). Il 16 giugno 1866 c’è la dichiarazione ufficiale di guerra fra l’Austria e la Prussica di Bismarck a cui si allea il nuovo Stato italiano nella speranza di completare la propria unità (rimanevano fuori dai confini politici del Regno: il Veneto, il Trentino Venezia Giulia, Roma e il Lazio). Fedrigo viene spedito alle dipendenze del generale Kuhn sulle montagne sopra il lago di Garda a combattere contro Garibaldi e le sue camice rosse: «…cosa possono pretendere gli italiani da questo brigante? Dicono che da giovane, in Sud America, abbia fatto il pirata». Gli occhi innamorati di Leopoldina non vorrebbero staccarsi dal suo giovane eroe («Mi piacevi tanto, con la divisa, nel negozio. Il blu ti sta bene ed eri bello più che mai proprio come ci si immagina un eroe»), ma la sua lettera è un accorato appello pieno di spirito combattivo: «Mi dici che vai nelle montagne sopra Rovereto, verso il lago di Garda. È lì che vi tormenta Garibaldi, coi suoi rossi banditi. Amore mio, uccidi subito questo Garibaldi! Lo trovi, gli spari e torni da me un eroe per tutti e non solo per gli occhi di una moglie innamorata».
La seconda e la terza parte, La guerra e Garibaldi, sono caratterizzate dalle epistole di Fedrigo alla moglie, ricche di vicende militari e politiche che rivelano l’inettitudine dell’esercito italiano (a Custoza, a Lissa o al Ponte Caffaro dove 1400 austriaci sconfiggono 5000 italiani «…ti rendi conto? Va bene che erano i briganti di Garibaldi, ma è una vergogna anche per loro») e la sua frustrazione perché costretto a vivere la guerra non in prima linea ma negli uffici e nelle retrovie a giocare a carte con generali e ufficiali.

In questo contesto che vede il preludio al crollo progressivo di un mondo, quello dell’Austria Felix, e della sua nobiltà, si svolge la vita dei due sposi-amanti, dei loro familiari e amici. In questo romanzo storico ed epistolare, la Fedrigotti, con dettegli accurati e un linguaggio terso, semplice e immediato, ricrea un ambiente, un’epoca e una società aristocratica che vedranno la propria fine con la I Guerra Mondiale. A Fedrigo è però «risparmiato il dolore di diventare italiano», muore infatti nel 1902.  

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