Il profumo delle foglie di limone
di Chiara Gulino / 5 maggio 2011
«Il male non sa cosa sia il male finché qualcuno non gli strappa la maschera del bene». Questa frase che compare per bocca di Sandra, uno dei due protagonisti de Il profumo delle foglie di limone di Clara Sánchez, al capitolo 4 condensa a mio avviso il tema di fondo di tutto il romanzo.
Caso editoriale dell’anno, il libro ha raggiunto ben presto la vetta delle classifiche dei libri più venduti grazie al passaparola, ai potenti mezzi della rete (soprattutto blog letterari) e alla spinta dei librai, dapprima in patria, cioè in Spagna, poi nel resto del mondo, arrivando a vincere il Nadal, uno dei premi spagnoli più antichi e prestigiosi. È diventato anche caso di cronaca per via delle lettere minatorie ricevute dall’autrice da gruppi filonazisti. Nel nostro paese è uscito il 13 gennaio vendendo in un mese oltre centomila copie. Per comprendere il segreto di tanto successo ci si deve eclissare nella lettura di questo romanzo d’azione che assume le movenze a tratti del thriller psicologico, mescolando a fatti storici e personaggi realmente esistiti la finzione di una storia di coraggio e di amicizia, di memoria e di conflitti interiori.
Nonostante sia settembre inoltrato, il sole autunnale emana ancora un caldo avvolgente, diffondendo nell’aria della Costa Blanca il profumo dei limoni.
Sandra è una ragazza poco più che trentenne, castana con una ciocca di capelli rosso scuro, un piercing al naso e un paio di tatuaggi. È al quinto mese di gravidanza ma non è certa di amare e di voler sposare il padre del suo bambino, Santi. Ha un difficile rapporto con i genitori e non sa che fare della propria vita. È dunque figlia della contemporaneità e della attuale instabilità e precarietà sociale con la quale è facile immedesimarsi. Proprio per riflettere su questa situazione ha deciso di trascorrere un po’ di tempo nel villino al mare della sorella alla disperata ricerca di una bussola che possa indicarle quale strada intraprendere nella propria esistenza: «…mi prese una grande angoscia al pensiero che stavo perdendo tempo, un tempo prezioso che i miei coetanei stavano usando per finire gli studi, accumulare esperienze di lavoro, diventare capi, scrivere libri o andare in televisione.».
Un giorno in spiaggia accusa un malore e viene soccorsa da una coppia di amabili vecchietti stranieri sotto un ombrellone a fiori, Fredrick e Karin Christensen. Sarà proprio in seguito a questo incontro che Sandra sarà coinvolta in una storia che la obbligherà a maturare e a prendere decisioni radicali.
Dapprima la sua solitudine e fragilità la porteranno ad accettare con fiducia l’amicizia che la coppia di norvegesi sembra offrirle in modo disinteressato. Nella sua candida ingenuità pensa di aver trovato i nonni che non ha mai conosciuto, accetta di stabilirsi nella loro grande e lussuosa villa e inizia perfino a fantasticare di diventare l’erede dei due vecchi: «…non mi sarebbe scocciato essere la nipote preferita, o meglio l’unica, la depositaria di tutto il loro affetto e…di tutti i loro averi». Poi però conosce Julián, un uomo più o meno della stessa età dei Christensen, che è l’altra voce narrante del romanzo e che insinuerà nella giovane il seme del dubbio.
Scampato al campo di concentramento di Mauthausen, dove era stato internato come prigioniero politico tra i repubblicani spagnoli, Julián è mosso da una inestinguibile sete di vendetta. Quando fu liberato infatti si arruolò nel Centro Memoria e Azione per dare la caccia ai nazisti sfuggiti alla giustizia: «Non ci sentivamo eroi, ma piuttosto degli appestati. Eravamo vittime, e le vittime e i perdenti non piacciono a nessuno. Molti non ebbero altra scelta che tacere e sopportare la paura, la vergogna e il senso di colpa dei sopravvissuti, ma noi diventammo cacciatori». Il “noi” è riferito a lui e Salvador, detto Salva, suo compagno nell’inferno di Mauthausen, regno del male assoluto.
Dopo l’iniziale diffidenza, Sandra comincia a guardare con occhi diversi i due norvegesi e tutte le cose raccontatele da Julián trovano una conferma. Julián in un primo momento si serve della ragazza rischiando di mettere a repentaglio la sua e la vita del bambino. Uno dei danni maggiori del male è che, per combatterlo talvolta si è costretti a diventare almeno in parte simili a lui. Ben presto però se ne pente e cerca di convincerla di tornare a casa, ma è Sandra a rifiutare perché le sembra di fare finalmente qualcosa di utile, qualcosa che la fa sentire finalmente viva: «Volevo fare qualcosa di grande. Visto che le cose piccole della vita non le sapevo fare, dovevo farne bene una importante per non continuare a sentirmi completamente inutile».
È a questo punto che il ritmo della narrazione, movimentata dall’alternarsi di due punti di vista diversi, subisce una accelerazione fra indagini sui traffici dei nazisti e incontri segreti fra Sandra e Julián, pericoli e sospetti. La paura della “banalità del male”, per dirla alla Hannah Arendt, è la componente fondamentale del libro, motore e referente di ogni gesto. C’è anche posto per una storia d’amore fra Sandra e Alberto, detto l’Anguilla, apparentemente uno dei giovani delinquenti unitesi ai vecchi criminali, ma che nasconde un mistero. È soprattutto la storia di un’amicizia che riesce ha superare le incomprensioni generazionali, nonostante i due protagonisti si muovano su piani temporali diversi: l’uno, Julián rimane intrappolato nella dimensione del passato, l’altra, Sandra, vive invece nel presente.
La trama diventa così il pretesto per parlare di un fatto atroce della storia del Novecento, ma anche e soprattutto per poter fare un’analisi dell’animo umano, in grado di compiere atti eroici e allo stesso tempo i più mostruosi crimini lesivi della dignità umana. Non è però un romanzo sul nazismo venuto ad alimentare un genere letterario e cinematografico già ricco, ma un romanzo d’azione che vuole insegnarci a guardare oltre l’apparenza perché «niente e nessuno sono ciò che sembrano
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