Lunazioni d’amore

di / 18 maggio 2011

«Hai il battito del mio cuore fra / le mani, pulsa / è lucciola di bacio». Nelle Lunazioni d’amore (Perronelab, 2010) della brava Simona D’Urbano c’è una ricerca che riguarda un “tu” amoroso che appare, scompare, a volte persino sfugge.

Un fermento amoroso vitale e vitalistico che costruisce se stesso a furia di desiderio, come una “oscura sostanza” (chimica, intellettuale, corporea, fisiologica) che muta continuamente aspetto e consistenza.

La poesia ritrova in questa raffinata silloge il suo lirismo, la sua essenza primordiale di linguaggio e musicalità. Ci sono suoni e colori che rendono liquida la pagina, che modulano il respiro, che alternano giochi, parole, silenzio, malinconia e piacere.

Sì perché se è vero che «su quella tua smisurata parete fissa, / bianca / è comparsa qualche crepa» è anche vero che costantemente «il desiderio si anima, / come se le mie mani / ti avessero fra le dita».

Il motivo di questa prolungata tensione (sentimentale? amorosa?) – ora negativa ora positiva – va rintracciato nel suo io poetico che entra ed esce da sé di continuo: un io camaleontico, vestito di momenti di riflessione e di eros, che indaga il prima, il dopo ma soprattutto il “durante”.

Ed è proprio nell’atto quotidiano in cui si manifesta la platonica idea di “istante” come «qualche cosa di assurdo che giace tra la quiete e il moto» che si realizzano questi versi.

«Dopo poco / ti saresti dissolto /ancora una volta / in quel che non ho più». L’assenza, motivo ridondante che innesca molti ingranaggi di quel meccanismo poetico che forma queste Lunazioni, avviene ancor prima di entrare in campo, come se fosse qualcosa di innato e di viscerale, un qualcosa che fa parte del tempo senza essere riconducibile ad una stagione precisa.

C’è una spartizione, non una crasi quindi, tra il “prima” e il “dopo”, creando uno spartiacque, o meglio un fossato incolmabile che non riesce ad unire queste stagioni del vivere quotidiano.

L’io femminile vive, assapora, rumina esperienze e visioni; l’opposto, se c’è, è scevro di una verità di pelle e carne, non regge il confronto corporeo.

Corpo e sostanza, appunto. Un corpo e una sostanza che accettano il movimento incessante della vita, o meglio di quelle fasi lunari che così intanto interagiscono con il nostro habitat.

È piacevole perdersi tra le vibrazioni di questi versi, in quella estenuante sensualità fisica e visiva, in quel gioco proibito che si nutre delle stagioni, quelle “esterne” di nascita, morte e rigenerazione; e quelle “interne” che alla primavera oppongono un bel po’ di noi stessi.

Se c’è un limite in queste poesie è l’eccessivo aggettivismo tipico di chi scinde istinto e ragionamento, bisogno di comunicare e volontà di architettare un progetto dalla vasta portata.

Un limite è vero ma anche l’escamotage fondamentale per costruire il proprio percorso, una strada ancora lunga che si preannuncia però un po’ meno ardua, una strada da percorrere con una consapevolezza nuova, quella di chi conosce il linguaggio nella sua forma, forse, più nobile: la poesia.

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