Lo scaffale degli ultimi respiri

di / 24 maggio 2011

Lei non ha nome. Perché forse non saprebbe pronunciarlo.
Perché è la terra a chiamarla ogni giorno, a chiederle i piedi, a trattenere in ostaggio porzioni di sé, per non lasciarla mai intera.
Concepita a Cracovia, scivolata dal ventre tra le braccia di Bucarest, grazie a mani tedesche che la sentirono piangere. La sua appendice è in Cecoslovacchia e le adenoidi hanno scelto Madrid dopo due operazioni chirurgiche.
Quel che resta abita in Svizzera, dov’è approdata dopo un valzer di viaggi e di odori diversi. Dove «si paga anche per sbattere le ciglia» e dove anche respirare deve essere bello per forza. Perché se qualcuno domanda: “Ti piace star qui?” non è previsto dire di no.
La sua è gente da circo. È vita da circo.
Ha una famiglia mozzata. Un padre fuggito, una madre stupenda, che può solo guardare perché non sa amarla. E una zia che riempie il suo cuore, finché non si allontana. E poi inizia a morire.
È lei, più nipote che figlia, la protagonista del libro Lo scaffale degli ultimi respiri di Aglaja Veteranyi, ispirato al percorso della stessa autrice, nata in Romania e sbarcata in “Elvezia” con la sua carovana di artisti di strada. Di memorie sbilenche e riti ancestrali.
Un romanzo tagliente e invasivo. Per cui non si origlia dietro la porta, non è possibile rimanere al di qua. Si entra dentro i sapori di quelle lenzuola, nella pentola che riflette le stelle, nel grano lavato ben nove volte prima di essere degno di un dolce.
Una poesia dolorante e magnifica che permea ogni spazio: quello del corpo che si decompone, degli occhi marciti dietro un saluto, dell’inverno scaduto dentro una stanza. Lo stile sposato dalla scrittrice è accecante e straordinario. Breve, quasi sincopato. Una sintassi essenziale, asciutta ma sempre efficace. Abitata di suggestioni e silenzi fortissimi.
Una storia composta «dall’alto della fune», come la avverte Peter Bichsel, per cui si scruta dal basso col fiato bloccato. Una vita senza patria che cerca i suoni per descriversi, i profumi per scaldarsi, che attraversa passioni tradite, rapporti mancati, il senso amaro alla bocca di un destino un po’ zoppo in cui «si passa molto più tempo da morti che da vivi» e allora si versa vino sulle tombe, si ubriacano i defunti, si cambia confine sperando di tornare.
Una girandola di umori e paesi infilati in valigia senza attenzione, una roulotte di parole che non trovano casa, che non vivono dentro una lingua, ma ci scorrono e basta.
Perché forse non esiste una vera lingua madre. Perché nel caso dell’autrice la lingua è più zia che madre, più una creatura che non l’ha generata, ma che affonda comunque nella sua carne. Mescolandosi con le altre voci.
Pochi giorni prima della sua pubblicazione, il 3 febbraio del 2002, la Veteranyi si suicida in riva al Lago di Zurigo. Lasciando il suo talento galleggiare sull’acqua. E la sua intensità su queste pagine.
 

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