Storia di un quadro

di / 24 maggio 2011

A volte ritornano. O semplicemente non se ne erano mai andati. Eravamo noi ad aver distolto l’attenzione. Gli scrittori veri non smettono mai di sorprendere per la forza vitale delle invenzioni che sopravvivono alla loro morte fisica. Se ne stanno forse sommersi per un po’ facendo finta di assecondarla, la morte; sepolti vivi nella tomba della memoria collettiva finché rianimati grazie a mediatori illuminati, rilucono. All’improvviso, come da un fondo segreto di un armadio o ripostiglio dell’immaginario, emerge una storia unica, non narrata abbastanza che rivendica il suo diritto d’esistere. Così è per il Georges Perec della Storia di un quadro scritta nel 1979 che l’editore Skira ha restituito alla fruizione e alla scoperta, o riscoperta a seconda dei casi, pubblicandola in un’elegante collana narrativa. Si tratta di una collana che racchiude volumi, ciascuno un piccolo capolavoro, unificati dal fatto d’essere una miscela di arte, qualche volta biografia, e letteratura: dall’Egon Schiele del Diario del carcere, all’incontro immaginario tra Edward Hopper e Raymond Carver ipotizzato da Aldo Nove, fino al recentissimo La moneta di Akragas di Andrea Camilleri, giunto alla quarta edizione per il riscontro di pubblico.

Storia di un quadro è un’invenzione bizzarra, una vertigine dall’inizio alla fine, al punto che spesso non ci si raccapezza, ma questo è il modo tutto di Perec di esistere nella pagina, modalità che trova accaniti estimatori o al contrario forti detrattori. Contiene in piccolo formato le stesse specificità che hanno fatto di La vita istruzioni per l’uso, un capolavoro inventivo e compositivo, il fondamento di ogni narrativa del millennio in corso. Il titolo originale è Un cabinet d’amateur. Histoire d’un tableau. In una grande esposizione, a latere c’è una mostra di un collezionista, un magnate americano d’origine tedesca, tale Hermann Rafke. All’inizio sembra cosa marginale. A poco a poco l'attenzione di visitatori ed esperti è  catturata da un quadro enigmatico, un Cabinet d’amateur in cui vi è ritratto lo stesso collezionista circondato dai suoi dipinti, cento quadri preferiti, mentre contempla un quadro che lo ritrae nello stesso contesto. Il motivo si succede dunque maniacalmente in ogni quadro incorniciato nel quadro maggiore; ripetizione ossessiva, e al tempo stesso all’apparenza placida e composta, dello stesso tema: l’arte è serialità, la creazione è ripetizione e beffa, mistificazione. Tra una riproduzione e l'altra, non c’è che qualche lieve variazione che si riproduce per un certo numero di volte come in un gioco di specchi deformi e scatole cinesi. Dotte dissertazioni della critica alimentano l’interesse sull’opera. Intanto la morte improvvisa del collezionista, secondo la sua volontà imbalsamato e in maniera macabra sepolto in una tomba con la stessa vestaglia e nella stessa poltrona su cui aveva posato, e la tomba che riproduce con fedeltà la stanza dove teneva i suo quadri preferiti.  Il libro è costruito come un poliziesco, ma è anche un pastiche, e poi un’effrazione. Perec si dedica a ricostruire i documenti della collezione, la storia dei quadri compresi quelli che non compaiono nelle riproduzioni in miniatura, gli articoli scritti, i cataloghi delle vendite all’asta, l’autobiografia del collezionista, un saggio critico sul pittore, Heinrich Curz. Tutto questo in un clima di sospensione e incertezza fino alla sorpresa finale che ha a che vedere con truffe e falsificazioni nel mercato dell’arte. Intanto si sta smarriti, ci si chiede se non si è sbagliato libro: forse si sta leggendo un bollettino per specialisti e mercanti d’arte, o un saggio specialistico, un catalogo; non si distingue tra realtà e finzione, si dubita a ogni pagina, si sospende ogni convinzione restando nel dubbio se la vicenda sia vera e se i quadri in questione esistano davvero. L’autore non ci prende per mano, anzi ci inchioda al rovello. Siamo in un mondo dove la letteratura sembra scombinata ma è abilissima arte combinatoria. Siamo catapultati in pieno nei labirinti mentali di Perec, membro a pieno titolo di quell’opificio della letteratura potenziale ideato da Queneau che trovò nella rigida regola della costrizione la sfida all’ immaginario di ogni aderente e nel gioco logico la risposta a un mondo glaciale o assurdo, oltre che un modo di sfuggire all’arbitrarietà dell’esistenza. Nel pastiche poliziesco c’è la  “vertigine tassonomica” o ansia classificatoria di Perec, ci sono gli elenchi, unica possibilità di conservazione e salvezza in un mondo di cose destinate al deperimento e alla sparizione (tra le opere fondamentali di Perec infatti ci sono "Le cose" e "La scomparsa", romanzo in cui non compare la lettera e, la più diffusa nella lingua francese). Il grande virtuoso della logica e della linguistica riproduce sé stesso mentre riproduce l’artista che dipinge la propria storia e quella delle sue opere attraverso la storia delle opere altrui. Alla fine l’elemento “più toccante e grottesco” dell’opera stessa è «il ritratto di quell’uomo tatuato in maniera mostruosa, un corpo dipinto che sembrava ossessivamente montare la guardia davanti a ogni ripetizione del quadro: uomo diventato pittura sotto lo sguardo del collezionista, simbolo nostalgico e irrisorio, ironico e disincantato di questo creatore privato del diritto di dipingere, ormai votato a guardare e a offrire in spettacolo la sola prodezza di una superficie integralmente dipinta». Quanta partecipazione nel distacco apparente della creazione praticata come resoconto iper-realistico. Quanta arte per raccontare la morte dell’arte e la ripetizione infinita dei propri modelli nella disperata ricerca di una via di sopravvivenza.

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