“La vita accanto” di Mariapia Veladiano

di / 15 luglio 2011

«Una donna brutta non ha a disposizione nessun punto di vista superiore da cui poter raccontare la propria storia». Inizia così il primo romanzo di Mariapia Veladiano, già vincitore del premio Calvino 2010, La vita accanto. La storia di una bambina brutta, apparentemente invisibile agli occhi della sua famiglia e forse invisibile anche al lettore che solo nel terzo capitolo dà a quel volto un nome, Rebecca. Un nome che ha in sé le speranze e, allo stesso tempo, il dolore di una madre. «Donna che piace agli uomini». Ma Rebecca è brutta, vive nell’antico palazzo affacciato sul fiume Retrone, nel vecchio quartiere delle Barche. Vive tra quelle quattro mura dove le finestre sono sempre chiuse e si respira un’aria triste, non c’è spazio per essere felici. Non c’è spazio per Rebecca.  Una madre chiusa in se stessa, una bella zia, una tata, un padre troppo impegnato con il lavoro, il maestro di pianoforte, la vecchia signora e, l’unica vera amica della sua vita, la grassissima Lucilla. Un mondo dove le vite dei diversi personaggi si intrecciano tra loro, tanti piccoli pezzi di puzzle che pian piano Rebecca cerca di mettere insieme e solo alla fine del romanzo riuscirà ad avere una visione completa del quadro: «Non sono infelice, proprio no. Sto bene. Non sono nemmeno così sola». Un romanzo forte, che racconta la vita guardandola con gli occhi di chi è solo contro il mondo, debole di fronte al proprio destino e di chi, ogni giorno, cerca di andare avanti in un mondo dove la propria vita non si fonde con quelle degli altri, ma scorre velocemente accanto. Mariapia Veladiano cerca così di dar voce a chi, di solito, resta nascosto in un angolo con «la testa fra le ginocchia». Un romanzo originale nella scrittura, dove la cronologia lascia il posto ad un gioco dinamico tra presente e passato, un’apparente confusione, un susseguirsi di episodi in bilico tra il detto e il non detto che sembrano non avere un filo conduttore. Una lettura veloce ma non distratta porta alla fine del libro, il dubbio di cosa potrebbe essere accaduto scandisce i minuti che separano un capitolo dall’altro. Un gioco che stuzzica la curiosità: è forse tutto qui il senso. Un romanzo dove il colore domina la narrazione. Nelle sue descrizioni dettagliate, dell’antico palazzo, del fiume, dei personaggi, delle decorazioni domestiche o delle strade percorse, l’autrice riesce a rendere reale il tutto, a far toccare con mano al lettore quel vestito, quella tenda o respirare l’aria del fiume grazie ad un uso, quasi magico, del colore. C’è una sensazione di armonia nella descrizione. «Solo colori chiari per le pareti e l’arredo. Amava l’azzurro. Un azzurro lava che lei descrisse come verde salvia». Il colore rende il racconto vivo, dà luce. È il colore che rende visibili, agli occhi dell’immaginazione, i luoghi e gli oggetti, «una tenda bianca leggera, una più pesante, celeste con fili d’argento ai bordi». Anche nei personaggi, le loro particolarità sono messe in risalto dal colore, come l’amica Lucilla «vestita con una tuta bianca che la rendeva immensa». Ma il colore non è solo armonia. C’è contrasto. Il bello e il brutto, l’azzurro dei vestiti della madre prima della nascita di Rebecca e il nero del lutto per la tragica nascita. Un bel romanzo. Una bambina imperfetta per una storia perfetta. Il dolore emozionante di una donna che vive «in punta di piedi». Un’amicizia vera, quella tra Rebecca, una bambina brutta, e Lucilla, una bambina grassa. Una tata che non perde occasione per ringraziare la Madonna e Gesù Bambino per tutto quello che di buono offre la vita. Una madre inadeguata ad un funerale. «Una bambina brutta è figlia del caso. Di certo non è figlia di Dio». Un bel romanzo? Forse verrebbe da arricciare il naso pensando alla presenza, un po’ forzata, di stereotipi. In alcuni momenti, a scrivere non è la mano della scrittrice ma della laureata in Filosofia e Teologia. 

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