1.3/ Una volta ho visto Gesù dentro una tortilla

di / 24 settembre 2011

Gotta find a way, a better way
A better way

(Territorial Pissings – Nirvana)

Sto con i piedi a mollo, seduta su un ponticello di legno. Non tira un filo di vento. Accanto a me, Sandy, con lo sguardo fisso verso le case di fronte a noi. Spengo la sigaretta e la getto via. È così bello qui, così silenzioso che sembra che nessuno ci abbia mai abitato. Abbasso lo sguardo. Un gruppetto di anatre passa accanto ai nostri piedi, ma non ci degna di particolare attenzione. L’acqua è limpida, vedo noi due riflesse al contrario. Il Lago Washington è tutto ciò che mi rimane di Kurt.
«Perché l’ha fatto?» Mi chiede Sandy, ma ho l’impressione che l’abbia chiesto a se stessa ad alta voce.
«Non lo so», rispondo.
Quel giorno, era l’8 Aprile, avevo deciso di andare a cercare Kurt a casa sua, vicino a Seattle, volevo fargli una sorpresa. Era quasi una settimana che nessuno aveva più sue notizie di lui e dopo tutto il casino che era successo a Roma, c’era una parte di me che mi obbligava ad andare. Così saltai su una corriera e feci non so quanti chilometri di paesaggi sabbiosi per raggiungerlo, anche se lui mi aveva sempre detto di non fargliele, le sorprese, le detestava.
Arrivata in prossimità della sua abitazione, una casetta bianca con il tetto rosso, vidi un’automobile nera parcheggiata, e un omone che indossava una tuta di lavoro grigia e blu, con appresso una valigetta piena di utensìli, roba da elettricisti o qualcosa del genere, e una scala che riusciva a trasportare senza difficoltà. Quando notai che si stava dirigendo verso la casa di Kurt, affrettai il passo. Lo raggiunsi con uno scatto. Sull’automobile c’era scritto Veca Electric.
«Buongiorno», gli feci.
«Buongiorno», mi rispose.
«Sta andando a casa di Cobain?»
«Sì, devo fare un lavoro per lui».
«Benissimo allora vengo con lei, se non le dispiace». Disse di no, poi sorrise. Il fatto di sapere di non dover affrontare la situazione da sola, mi fece sentire meglio.
Camminammo su per giù a due metri di distanza, il rumore degli utensìli dentro la valigetta scandiva ogni passo dell’elettricista, l’erba umida mi sfiorava le caviglie. Arrivati di fronte alla porta di casa, dopo aver poggiato la scala accanto alla porta, l’uomo bussò. Non rispose nessuno. Passò qualche istante. Bussò di nuovo, più forte. Niente. Allora mi guardò come se stesse cercando da qualche parte il permesso di bussare ancora più forte. Gli feci un cenno involontario, qualcosa che lui percepì come un sì. Senza spostare lo sguardo da me, prese a colpire la porta con una violenza tale che mi spaventai. “Signor Cobain, sono Gary Smith, l’elettricista”, disse. Nulla.
Pensando alle possibilità di cosa fosse accaduto, sentii per un istante i muscoli tendersi all’inverosimile e l’ansia salire quasi fino in gola, ma riuscii a scacciare via tutto quanto pensando a Kurt che stava da qualche parte a scrivere qualcosa, a suonare, a fumare, lontano da tutti quanti. Scossi la testa e mi ripresi.
Senza dire niente, ci incamminammo verso il garage. Ora, la distanza tra noi due era minore rispetto a prima, sentivo di avere bisogno di essere protetta in qualche modo, così mi avvicinai a lui sperando che non se ne accorgesse.
Alzai lo sguardo. Il lago si apriva di fronte a noi e, grazie a un particolare gioco di luci con il sole, luccicava come fosse tempestato di diamanti. Mi fermai un secondo a guardare il paesaggio. Sembrava quello di un film. Poi, allungando il passo, colmai la distanza che si era andata a formare in quella manciata di secondi tra me e l’uomo.
Gli utensìli continuavano a rimbalzare nella valigetta, accompagnando il passo sostenuto dell’elettricista; mi avvicinai un altro po’ a lui, non sembrava che la cosa lo infastidisse particolarmente.
Arrivammo al garage. Era grigio, piccolo, e sembrava abbandonato. La saracinesca era semichiusa, piena di ruggine sugli angoli. L’uomo poggiò la valigetta a terra e aprì la scala, non avevo fatto caso a quanto fosse alta. Chiesi se potevo essere d’aiuto, ma l’uomo rispose scuotendo la testa. Dopo essersi assicurato che la scala fosse ben piantata a terra, salì. Arrivato in prossimità di una piccola finestra che dava su quella che Kurt chiamava “la serra”, l’uomo iniziò a fare misurazioni e cose simili. Io stavo lì sotto, tirai fuori dal pacchetto una sigaretta e la accesi.
Mentre facevo un lungo tiro – stavo cercando di ricordare se fosse “The black sheep” oppure “The black deep got blackmailed again” – sentii l’uomo dire qualcosa tipo: «Il signor Cobain sta qui sopra, mi pare che stia dormendo». Ebbi la sensazione che qualcuno fosse riuscito a togliermi un macigno dallo stomaco. Senza pensare, gettai via la sigaretta e corsi verso l’entrata del garage, aprii la saracinesca ed entrai. Mi venne quasi un conato di vomito quando inspirai la vampata di un odore nauseante che proveniva da non so dove. Raggiunsi le scale che portavano alla serra, feci due scalini alla volta per arrivare prima. L’odore si faceva sempre più forte. Una luce fioca illuminava la piccola stanza. Vidi la mia ombra allungata che tremava su una parete.
«Kurt», dissi mentre sbucavo con la testa nella serra. Dalla posizione in cui mi trovavo, potevo vedere un corpo steso a terra, le scarpe da ginnastica, i jeans, una camicia a quadri. «Kurt!», dissi di nuovo. Feci qualche passo in avanti. Fu un attimo. C’era una macchia di sangue accanto ai capelli biondi di Kurt e, poco più in la, un fucile. Spostai la testa da un’altra parte, mi appoggiai al muro per non cadere. Sentivo che stavo per svenire. Strozzai un urlo che avrebbe fatto tremare tutta Seattle. Feci le scale e corsi via.
Piangevo senza che me ne rendessi conto, provando a dire all’elettricista di guardare dentro che io non ce la facevo, che non potevo farcela, che Kurt non ce l’aveva fatta. Superai la casa bianca con il tetto rosso, l’automobile nera, e corsi lungo la statale. Sentivo che nulla aveva più senso.
Mi fermai in una piccola stazione, dove partivano le corriere. Entrai nella sala d’attesa. Non c’era quasi nessuno. Mi sedetti di fronte a una coppia di ragazzi. Chiusi gli occhi. Sperai che tutto quanto fosse solo un incubo. Poi, mi addormentai.
Ora il sole sta sprofondando tra due collinette, è passato un po’ di tempo, non me ne sono accorta. Ho i piedi ancora in acqua. Li tiro fuori, li stendo e li osservo gocciolare. Ogni tanto qualche filo di vento freddo scivola lungo la mia schiena, ho l’impressione che la temperatura sia scesa un bel po’.
«Perché l’ha fatto?» Mi chiede un’altra volta Sandy.
«Non lo so», le rispondo.
 

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