“Sulla strada del padre” di Fernando Acitelli

di / 10 ottobre 2011

Ognuno ha le proprie rovine interiori, marmi sbiaditi e muri sbrecciati, su cui proiettare il profilo di monumenti che non esistono più. Luoghi di memoria, frammenti e immagini ingiallite. Questi sono gli strumenti di cui “l’archeologo dell’anima” Fernando Acitelli si è servito per eseguire il suo restauro emotivo: restituirsi e restituire la figura dell’amato padre, Italo Acitelli, un reduce dal mondo.

Sulla strada del padre (Cavallo di Ferro, pp. 304, Euro 17,50) è l’intensa elegia di un figlio che decide di vivere per circa un mese come un vagabondo, un pellegrino nella propria città, Roma, partendo dal centro, per ossigenarsi e trovare il giusto passo, verso la periferia, quell’«area sacra Quadraro – Tor Pignattara – Pigneto», pullulante di varia umanità.
L’autore compie il suo grand tour in un ininterrotto dialogo con il genitore attraverso il quale far rivivere un’epoca, un linguaggio fatto di parole scomparse e uno stile di vita «quieto anche nell’inquietudine» lontano anni luce dalla «rabbia e l’isteria odierna». Passeggiando per le strade di borgata interroga palazzi dalle facciate ormai alterate, quasi irriconoscibili, e si spinge alla ricerca di uno scenario (le osteria con pergola) su cui è calato inevitabilmente il sipario. Si imbatte in volti che a volte suscitano in lui vaghe rassomiglianze e che cerca di interpretare nella loro “mutazione antropologica”, come direbbe Pasolini. Rilegge accanto a un lampione o nel basso ventre di un sottoscala le lettere, dal fronte greco-albanese o dal campo di prigionia in Texas, del padre alla famiglia. Italo, ostinatamente orgoglioso e fedele solo a se stesso avrebbe potuto scegliere la libertà ma optò per la non cooperazione con gli americani: «Eccolo il punto: mai con chi trionfava tu, padre mio, sempre nelle retrovie, sempre in silenzio, sempre a corto di slogan, sempre distante da adunate e paroloni…soltanto i fatti, quelli concreti, semplici, la vita in penombra, la vicinanza delle persone semplici, proprio quelle che sentivano la vita come te».
Dieci anni, 1937-1946, sacrificati alla patria non gli valsero neppure il premio di un lavoro dignitoso: «Ecco un’altra mia ossessione nel mentre, per l’ennesimo giorno, cerco qui, in queste strade assolate, i tuoi giorni, padre, quelli della giovinezza dissoltasi all’istante, non vissuta mai compiutamente e, in definitiva, regalata». Anche un cuore forte rischiava di non reggere lo smacco, figurarsi uno malato. E allora ecco le medicine salvavita, le corse in ospedale, il ricovero e poi la convalescenza vissuta dal giovane Fernando con il terrore che potesse avere un altro infarto, magari proprio al «fatale gol di Schiaffino», perché si sa la Roma è una passione. Una passione, quella per il calcio, che l’autore de La solitudine dell’ala destra (Einaudi 1998) condivise con il padre anche praticandolo. Se la prima squadra di Italo fu Giovinezza dove veniva soprannominato “Blum” dal nome del terzino sinistro della nazionale austriaca, Fernando cominciò invece nella Stephan. Questa aveva sede in via Cairoli per cui altra tappa del peregrinare rievocativo del tempo adolescenziale dello scrittore non può che essere piazza Vittorio dove ora constata l’umana disperazione di chi neppure acqua, limone e zucchero sembra più dissetare. Eppure anche a quel tempo c’erano i perdigiorno, quelli che il padre chiamava “stangapiazza” o “langoni”, ma forse erano più disincantati di adesso.
In questo viaggio spirituale e reale, interiore e sentimentale si susseguono, in modo mai lineare, bensì ondivago e fratto, una serie di ricordi, immersi in una prosa liricheggiante e raffinata perché poetica è stata la stessa esistenza del padre, «un poeta senza saperlo, in fondo»: «M’illumino d’immenso […]. Sin da bambino legai la tua immagine al verso straziante di Ungaretti». La poesia, intitolata Mattina, dalla potente intensità sinestetica e simbolica trasmettente un sentimento di vastità che solo la luce abbagliante del sole al mattino può dare, fu scritta quaranta giorni dopo la nascita del padre il 26 gennaio 1917 in trincea a Santa Maria La Longa: «Era una domenica pomeriggio quando m’imbattei in Ungaretti, potevo avere nove anni. La tua data di nascita, 18 dicembre 1916, l’avevo mandata a memoria sin dalla seconda elementare; me l’ero scritta sul quaderno e sul sussidiario, proprio sopra il mio nome, come se volessi segnalare al mondo da quale momento del secolo provenivo». È questo universale affetto filiale che il tempo non può cancellare la fonte di ispirazione di questo stupendo romanzo.

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