Magia nera

di / 13 ottobre 2011

«“Io non pecco”, sorrise, “Io sono il Peccato: non faccio del male, perché sono il Male…ma tu”, l’espressione gli divenne grave, quasi triste, “tu sei molto umano, sarebbe stato meglio se non ti avessi incontrato!”».

Queste sono le parole che nella parte culminante del romanzo di Marjorie Bowen, Magia Nera (Gargoyle Books, pp.304, Euro 14,50), riecheggiano tra gli splendidi marmi luccicanti di sfarzo della stanza papale in Vaticano pronunciate da Dirk Renswoude, l’enigmatico intagliatore di sculture di diavoli d’oro di una tranquilla cittadina delle Fiandre, Anversa, all’inizio del libro, e che in seguito ad una serie di circostanze reali e soprannaturali, di assassini e stregonerie, si troverà a sedere sul soglio di San Pietro con il nome di Michele II. Il suo interlocutore e coprotagonista è Thierry di Dendermonde, giovane studente smanioso e contraddittorio, appassionato di pratiche occulte proprio come Dirk. È proprio questa comune passione il centro e il motore dell’azione romanzesca.
Dal giorno del loro incontro a casa di Dirk, quando Thierry giunse con Balthasar di Courtrai, figlio del Margravio delle Fiandre orientali, in cerca di notizie sulla moglie di quest’ultimo, Ursula di Roselaare, mai conosciuta e sposata per interesse, i due giovani stringeranno un’alleanza fragile e potente al tempo stesso. Dapprima li vediamo, uniti nell’intento di perfezionare la loro conoscenza della magia nera, recarsi alle università di Basilea e Francoforte. E poi sarà una donna, signora di un incantato castello, Jacoba di Martzburg, a dividere i loro destini che però torneranno inevitabilmente a rincontrarsi nella seconda parte, a dieci anni di distanza, e, questa volta, nello scenario di una Roma tanto sfarzosa all’interno dei palazzi del potere quanto decadente nelle rovine esterne (architettoniche e umane).
La parte debole è rappresentata proprio da Thierry dilaniato dal senso di colpa: c’è un Thierry ambizioso che si lascia possedere e trascinare dal demonio che ha per lui grandi progetti e un Thierry che vuole credere ancora nell’esistenza di Dio e che si aggrappa a qualsiasi cosa o persona la possa provare.
Ambientato in un Medioevo cupo e fantastico, dove antiche paure dominano un universo prigioniero di credenze e superstizioni, il romanzo ha tutti gli ingredienti del gothic novel: specchi e sfere magiche che predicono il futuro, streghe di origini orientali e demoni evocati con cadaveri, castelli, palazzi e rovine, teste d’ottone parlanti e invocazioni a Zoroastro.

Marjorie Bowen, al secolo Gabrielle Margaret Vere Campbell Long (1885-1952), pur essendo stata un’autodidatta, mostra di conoscere miti e leggende, letteratura e storia senza però mai sacrificare alla precisione cronologica e alla verosimiglianza la tensione narrativa. Praticamente sconosciuta in Italia (di lei si ricordano due racconti apparsi nell’antologia Il grande libro dei fantasmi, La Tartaruga 1988), la Bowen sin da giovanissima produsse una serie di romanzi e racconti gotici spesso sotto pseudonimi soprattutto maschili (Joseph Sheaving, Gorge R. Preedy, Robert Paye, John Winch, etc). Questi non de plume le servivano per non incorrere nella censura e nella discriminazione maschile. I temi da lei trattati non potevano che apparire scabrosi alla mentalità perbenista borghese dell’epoca edoardiana.
La scoperta della scrittrice nel nostro paese si deve al direttore del Corriere della Sera Luigi Alberini che fece immediatamente tradurre e uscire a puntate nel 1906, a poco tempo di distanza dalla pubblicazione inglese, sul suo giornale il romanzo d’esordio, The Viper of Milan. A Romance of Lombardy, con Il biscione. Oggi la sua riscoperta è merito invece dalla casa editrice romana, specialista di horror e di letteratura soprattutto anglosassone di genere, Gargoyle Books.

Nonostante la presenza di streghe, maghi e demoni, non si può dire si tratti propriamente di un romanzo fantastico. Il soprannaturale c’è e fa da filo conduttore di tutta la storia, ma è il mezzo e non il fine. È il mezzo di cui si serve la scrittrice per parlare di altro: ambizione, vendetta, passione e fede. Non c’è una netta dicotomia fra Bene e Male. Persino un personaggio come Dirk Renswoude, malvagio e spietato ma mai all’eccesso, l’Anticristo del sottotitolo inglese (A tale of the Rise and Fall of Antichrist), è anche l’innamorato solo e incompreso che nutre un amore (omossessulae?) per il bel giovane Thierry. La sua identità rimane ambigua fino alla fine.
Ma Dirk Renswoude è anche un personaggio ricco di rimandi storico-leggendari. Come non pensare a papa Silvestro II, il papa “mago”, quel Gerbert d’Aurillac (938-1003) accusato di aver venduto l’anima per il potere? Oppure alla papessa Giovanna?
Inoltre il fatto che pratichi un’attività proibita e che adotti vari travestimenti cambiando più volte nome, come suggerisce Fabrizio Foni nell’interessante Prefazione, non può non far pensare a un riferimento autobiografico: anche la scrittrice infatti fu costretta a celarsi sotto mentite spoglie per guadagnarsi la pagnotta (è proprio il caso di dirlo, visto che la stessa Bowen nella sua autobiografia si definisce breadwinner, ossia “chi porta il pane a casa”), in quanto la sua attività di scrittrice veniva considerata indegna per una donna secondo la mentalità maschilista dell’epoca.
Sorprendentemente moderno per stile e tematiche per essere un romanzo del 1909, Magia nera a me sembra il vero progenitore dei tanti libri che nell’ultimo periodo con accattivanti titoli simil esoterici, ambientati nei “secoli bui”, stanno scalando le vette delle classifiche dei libri più venduti. 

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