“Sulla strada del padre”: a tu per tu con Fernando Acitelli

di / 28 ottobre 2011

Chi conosce Fernando Acitelli sa che la sua scrittura si alimenta di paesaggi interiori ed esteriori estremamente poetici. Così è anche per il suo ultimo romanzo Sulla strada del padre (Cavallo di Ferro, p. 304, Euro 17,50), un viaggio emotivo sulle orme del genitore per le strade di Roma.
L’intervista che ci ha cortesemente rilasciato sembra una continuazione del suo straordinario e così intimo e personale recente romanzo, un fiume di parole, scelte, pensate, ripensate per far corrispondere ogni termine al pensiero dal quale è partito.

All’inizio del suo intenso romanzo Sulla strada del padre, prima di intraprendere questo viaggio sentimentale nei luoghi che hanno visto protagonista suo padre e Lei, ha la necessità di andare ad “ossigenarsi al Foro”, di calmare l’animo, “educare la vista, cioè discendere veramente nelle cose e approvarle”, “educare i gesti” e “purificare il passo”. È questo il suo scenario emotivo ideale, immergersi nel passato della Storia di Roma, godersi “l’estinzione” per poi confrontarsi con un passato più intimo e personale, il suo e della sua famiglia?

Questo è il mio pensare quotidiano che s’acuisce quando, per un viaggio, sono sul punto di lasciare l’area sacra della mia casa. Fuori dalla porta mi pare sempre di dovermi porre sulla difensiva. Questo senso di smarrimento che avverto fuori l’uscio di casa si fa lieve se il ritorno a casa avverrà di lì a poco; se invece prevederà giorni, allora cerco il marmo, l’iscrizione spezzata, il latino in frantumi, il capitello come per una protezione, come se intimamente pensassi in pericolo gli affetti che lascio e così ritenessi giusto fortificarmi tra quelle “cataste” di scheggiature, resti di colonne che sono accarezzate soltanto da muschio e trifoglio. “Non sarà nulla, eventualmente…” – mi ripeto, con l’estinzione che m’è davanti, in diretta. È un dissolvimento pulito quanto si osserva al Foro e nei musei d’antichità romane. Un giorno, da ragazzo, pensai che un imperatore fosse “già in salvo” rispetto a mio nonno (Lorenzo, il padre di mia madre) che era appena scomparso. Nel mio ragionamento, i secoli decretavano per l’imperatore il suo essere già da qualche parte mentre per mio nonno ci si doveva esporre in continue riflessioni per quel dopo che era inspiegabile, inavvistabile. Oltre gli studiosi non v’erano più pensieri per l’imperatore: qualche turista, certo, resisteva, qualche velleitario dell’antichità, ma tutto finiva lì. Gli affetti dell’imperatore s’erano dissolti, proprio come lui; forse ondeggiavano nel suo stesso luogo, a pensarsi ravvicinati. Ma nei secoli a venire nessuno avrebbe sollevato il nome di mio nonno, Lorenzo Giusti. Naturalmente questo mio pensiero era estendibile a tutti i morti di tutte le antichità. Oltre a quanto detto a proposito di quel senso di protezione tra i marmi, credo che il mio rito attorno al Foro prima d’un viaggio abbia a che fare anche con il mantenere in vita, grazie al ricordo, non soltanto l’imperatore o qualunque personaggio bene in vista ma tutto lo scenario umano che la classicità rappresenta; per estensione si potrebbe azzardare che anche mio padre è al Foro, imperatore o liberto fa nulla. È fra tutti visto che non è più nel tempo umano. Ma come per mio nonno: chi parlerà di mio padre tra secoli e secoli? Cimitero all’aperto il Foro, ecco che quasi lo vado a trovare lì, mio padre, prima di partire. È là anche lui. E tutt’intorno riflessioni d’arte sulla morte, ricami sul nulla come poesie che puntellano. Inoltre, non è improbabile che s’avvistino sorrisi. “Vado al Foro a godermi l’estinzione”, quale altro significato di questo verso se non quello di poter dire, non con sentimento di sfida ma come constatazione ultima: “E va bene, al massimo moriremo anche noi…” Pensiero sotterraneo, a ben vedere, ma presente. Al Foro, poi, avviene questo: mi pongo sull’orlo di esso, fuori, perché osservare e riflettere sono atti che richiedono distanza e solitudine. Quindi attorno al Foro e non in esso: in via di San Teodoro, precisamente. Ecco, lì mi posiziono per osservare il Palatino e, dalla postazione scelta, cerco di scovare il criptoportico dove Caligola, prima di venire ucciso dal pretoriano Cassio Cherea, s’intrattenne a parlare con attori e mimi. E non è importante la ricognizione esatta su quel luogo, quanto il mio pensiero per quella notte del 41 d.C. che così diviene affresco interiore. È sempre questa l’immagine in quel punto di via di San Teodoro, sulla curva tonda, ed è un dipinto di morte. Frugo in solitudine verso il criptoportico di cui ignoro l’esatta collocazione – ma mi conforta il fatto che io sia sotto il Palatino – ed è come se volessi attenuare quella morte e poi le altre, precisamente quella di sua moglie Cesonia e della loro bimba, Drusilla, di un anno appena, fracassata al muro dal tribuno militare Lupo. Sono immagini depositate in me e dalle quali non riesco a staccarmi. La morte in quei secoli mi è sempre apparsa come qualcosa di “definitivamente risolto”, distante dagli agguati delle nostre quotidiane patologie. Quelle figure remotissime già conoscono la verità e il sogno, ogni volta che m’inoltro per un viaggio, è di sentire una voce sull’orlo del Foro, là, in via di San Teodoro sotto il Palatino, un suono a narrarmi che quella famiglia è in salvo e che dunque, a cascata, tutti saranno (saremo) in salvo. La ricognizione cosmica… possibile soltanto con la Poesia. Una Anagrafe Celeste, questo il mio sogno lì ed in ogni luogo, tutti i giorni sotto il tempo di Roma. E così, ad ogni mio spostamento, ad ogni viaggio fuori le Mura Aureliane, ecco che il sogno o la speranza di quella voce sotto il Palatino riprendono vigore. Non riesco a parlare di illusione, altrimenti non finirei sull’orlo del Foro e balbetterei preghiere tra me e me in altri luoghi. Ecco allora che se vado al Foro (sull’orlo di esso) ad “ossigenarmi” è per placare l’angoscia e sperare. Certo, sperare che sorga quella voce. Che vi sia un riflesso anche sui miei affetti è ben chiaro: la speranza è di rivederli da qualche parte, un giorno, i miei affetti. Oh, un giorno! Ma esisteranno un giorno, i giorni? Nel caso di mio padre, star lì prima di partire era sperare di sentirla quella voce che mi annunciasse lui in salvo. Ma non accadde nulla, né per questo, io disperai.

Altra tappa prima della partenza è al museo di antichità romane. Qui ad attirarla sono soprattutto anonimi ritratti virili di marmo per lo più di “provenienza ignota”, perché?

I volti, gli sguardi sono la mia gioia. Nei miei quotidiani vagabondaggi m’ubriaco di sguardi e il senso di felicità che mi procurano è difficilmente rappresentabile con le parole. Non si tratta di Bellezza ma di destino. La mia mente con gli anni è divenuta un vero Colombario con infinite urne cinerarie che staranno con me per sempre. (In certi momenti, chissà perché, immagino la mia mente anche come certi quadri di Massimo Campigli). Nel museo d’antichità romane quei volti mi rasserenano più di quelli che avvisto nelle navate delle chiese. In chiesa vi entro ogni sera, allo scheggiarsi del rosario, ora formidabile per la quiete interiore, ed anche lì vi sono volti nel marmo: nobiluomini, benefattori, bimbi saliti in cielo nell’Ottocento – Fulvio Puello Dulci Festivo Delicio Patris Matrisque Unico qui Vixit Annum I. M. X. D. IX in San Lorenzo in Lucina, ad esempio – e ancora giureconsulti, piissimi uomini, nobildonne; ma la differenza che sento sta in questo: mi pare che quest’ultimi sepolti o ricordati in chiesa siano più in salvo, come anima intendo, con una preghiera già consolidata e un Cristianesimo, malgrado tutto, insostituibile e fortificante. Nei marmi delle antichità romane l’esilità degli dèi (ma chi può dirlo?) e un Cristianesimo non ancora come architrave dell’Occidente tra catacombe e persecuzioni e primi esempi di santità, mi solleva dentro uno smarrimento e anche una paura difficilmente attenuabile. Tra un commento in latino sotto un busto in chiesa e una iscrizione su un’urna cineraria, be’ le mie lacrime sgorgano più su quest’ultima esilità. Come scordarmi, ad esempio, di “Hermes ti accompagni”: la dedica sepolcrale è posta dal padre Sestio Rufio Decibalo al figlio Achilleo, neonato. Nella nicchia è raffigurato Hermes il dio che accompagna i defunti all’Ade. Provenienza ignota II secolo d. C. Se avvisto appena un nome sono felicissimo e spero che Achilleo, come Drusilla, io li possa avvistare un giorno da qualche parte. Il fatto che mi possa ricordare di queste due più che esili esistenze e quasi gridarle all’Universo, mi dà una forza formidabile e m’incoraggia a continuare con lo scrivere. La provenienza ignota dell’urna cineraria mi toglie la possibilità del luogo dove potrei andare per compormi in raccoglimento. Nei musei d’antichità romane se si eccettua la storia conosciuta che passa attraverso imperatori, familiari, senatori, consoli, militari e filosofi, regna l’indistinzione e non v’è l’identità. Ed è questo un altro sisma interiore. Ma quel volto pur senza nome è esistito, non si può pensare soltanto all’abilità dello scultore ispiratosi a “tipi” umani. Se nei musei non vi fosse il sistema di allarme che non consente d’avvicinarsi troppo a quei volti anonimi – ritratti virili, di fanciulli, di atleti, di vecchi, di donne – li abbraccerei tutti, baciandoli anche e sentendo così sulle labbra il marmo pario, pentelico, lunense. Ma ritorno all’agguato: provenienza ignota. Come si trattasse di anonimi e sconosciuti con in più una aggravante. Come detto, se vi fosse scritta la provenienza, un viaggio in quel podere, in quel sito archeologico lo farei per ricordarmi di un amico nato secoli e secoli prima di me.  Nei momenti di più viva tristezza, pure penso che quand’anche sapessi il nome, la data di nascita, l’origine, l’anno di morte e la provenienza del volto che m’è comparso dinanzi, tutto condurrebbe, allo stesso modo, in quel nulla che a volte opprime e che in altri momenti mi sembra meno nulla, ovvero quasi inesistente. Il nulla inesistente: ecco, riprendo “ad ossigenarmi” partendo proprio da un simile pensiero, il nulla inesistente.

Lei afferma: «La verità con cui bisogna fare i conti. La strada. Tutto succede nella strada: l’ascolto, l’osservazione, le forme. Tutto ciò che succede fuori della strada è letteratura». Da questo suo pellegrinaggio a piedi di circa un mese per le strade della sua città quali verità, che prima ignorava, ha appreso?

Ho studiato molto. Sia a “La Sapienza” che alla “Pontificia Università Lateranense” ma credo che senza la strada ed i suoi colori, i suoi odori, i suoi umori,  non avrei compreso compiutamente quelle poche cose che considero importanti, quasi la stella polare del mio cammino. La strada è stata fondamentale sin da bambino: dentro l’Oratorio e fuori, lungo la via Latina, via arcaica. Le immagini sono superiori ai concetti, così sono le azioni, le rappresentazioni che ci accadono dinanzi e che ci fanno capire aprendoci ad orizzonti di senso. I libri ci ricamano la mente – “vizio” pure di mio padre, i libri – e da essi non mi separerei mai. Se però uno non sta sulla strada, il mondo non lo attraversa veramente e questo si sente spesso negli scrittori che, infarciti di libri e citazioni e riferimenti e tentativi spesso velleitari di interpretazioni, non ascoltano i dialoghi veri che avvengono sulle vie e nei vicoli e nell’oltre l’oltre della periferia o nel tepore del centro storico. Quando parlo di strada intendo anche occuparsi di faccende pratiche. Per quanto mi riguarda, riesco bene anche nelle cose pratiche perché un poeta è tale se sa districarsi anche nelle faccende di tutti i giorni: bollette, noie di varia natura, assemblee di condominio e poi il tirare avanti, come si dice, tutti fatti che, per un flâneur ad andatura crepuscolare e con lo sguardo interiore come credo di essere, è anche motivo d’orgoglio. Sguardo interiore, dicevo, e dunque non soltanto rivolto all’esterno, da successiva esposizione salottiera delle proprie sensazioni e sbandieramento della propria “precaria” situazione, scenari questi estranei alla mia persona e invece presenti in molti tra gli iscritti alla Corporazione. Che cosa ho appreso dal viaggio per le strade, anche interiori, a proposito del libro che avevo in mente di scrivere? Moltissimo, ma lo sapevo. Delle conferme, e la sensazione che io non possa che transitare per quei posti, lontano da ogni idea di scrivanie e “carriera”. Non so se sono stato in grado di scrivere e di comunicare tutto il mio sentire ma un fatto è evidente e cioè che il tepore e la sensazione di benessere che ho respirato tornando sui miei luoghi sono stati intensi e se fossi stato solo al mondo il viaggio sarebbe durato per un tempo lunghissimo, sconfinando magari in tanti altri quartieri. Vivo ai Colli Albani, praticamente sulla via Latina, dal 1964, quindi da cucciolo, ma come m’avventuro verso il Quadraro, verso Tor Pignattara dove mio nonno Alfonso costruì la nostra casa e dove trovò la morte nel 1924, ecco che a stento trattengo le lacrime e si forma un velo di cristallo dinanzi alle iridi che la mia astuzia riesce a far riassorbire lentamente senza che esso si frantumi, appunto, in lacrime. E così rivedo mio padre partire in divisa militare e mia nonna Teresa che dalla finestra lo saluta. E lo stesso per lo zio Fernando. Dal mio viaggio ho appreso questo: che non mi posso staccare dai miei primissimi luoghi, questi appena descritti e poi i due cinema che non ci sono più sulla via Casilina, il “Due Allori” e l’“Alfieri” e quello che invece resiste (chiuso) in via dell’Acqua Bullicante, ovvero il cinema “Impero”. E inoltre: la chiesa dei santi Marcellino e Pietro, mio primo oratorio sempre sulla via Casilina, e quindi il primo tratto del Pigneto, via Augusto Dulceri, dove c’era la nostra dottoressa, Nicoletta Abbatantuono.

Nella letteratura soprattutto novecentesca la figura paterna, basti pensare a Kafka, è vista perlopiù come una figura antagonista e inibente di cui ci si deve metaforicamente liberare per crescere. Lei invece descrive suo padre come un uomo semplice, umile, altruista, ostile a qualsiasi compromesso, un uomo che preferiva le retrovie, nascondersi, non mostrarsi proprio come la viola, dunque un punto di riferimento positivo di cui avverte la mancanza anche da adulto e anzi proietta la sua assenza su palazzi e facciate alterate dalla modernità. È la paura del dissolversi dei pensieri e dei ricordi, nonché di una Roma oramai sparita, il motivo ispiratore di questo romanzo così personale che però ricostruisce anche la nostra memoria collettiva? Rappresenta anche un modo per rivendicare le sue radici, la sua romanità oggi troppo spesso vista con ostilità dagli estranei o a volte rinnegata dai suoi stessi figli per vergogna?

Mio padre era un vero signore. Io mi sento un poco tale ma in confronto con lui soccombo perché in lui ogni gesto era un riflesso dell’animo e poi non sapeva inquietarsi. Io in questo sono diverso e mi accaloro ogni volta che vedo una ingiustizia. Questo era anche il suo sentire, indubbiamente, ma forse egli era disincantato dinanzi all’umanità che conosceva bene essendo stato, tra le altre cose, dieci anni in divisa sotto le armi. Anche per me tutto scatta dall’animo ma la mia emotività è troppo forte e spesso non interviene la ragione a frenare il fiume in piena. Lui, oltre che sensibile, aveva anche la ragione che orchestrava tutto e che interveniva al momento giusto per placare ogni accenno di disarmonia. Il suo rapporto con l’arte, poi: disegnatore formidabile (come il fratello) mai che pensò di mettere a frutto un simile dono. Calciatore di classe, con un passato anche nei ragazzi della Lazio nel 1932, mai che avesse pensato di puntare anche su quest’altro dono, su quella professione. Forse il senso della praticità gli venne dal non avere avuto il padre; questo mio pensiero credo abbia un fondamento. Mio padre è stato un uomo che ha fatto soltanto del bene ma che il bene l’ha ricevuto soltanto dalla moglie e dai figli. Non c’è immagine che io non leghi a mio padre: è il più grande affresco di sempre. Dall’amore per la vita, alle sue passioni come i libri, il Calcio ed il disegno, alla sua bontà, ecco, tutto questo era mio padre, ma non so se bastino queste mie riflessioni per descriverlo. Che mi sia capitato lui come padre è qualcosa di incredibile: la Terra ha visto mio padre e non se n’è accorta. Non ha sussultato. Vallo a capire, il mondo… Io ho raccontato quello che ho visto, quello che ho respirato a proposito di mio padre. Mi dispiace per l’immenso Kafka che abbia subìto a quel modo suo padre, ma in questo io mi sento d’aver vinto ad una lotteria cosmica.

A p.24 Lei afferma rivolgendosi a suo padre: «Vedi, padre, il mio destino è vagare in cerca di reperti e non fa nulla se essi fanno riferimento al 10 a.C. oppure sono dell’ultima guerra, di questo dopoguerra che non finisce mai». È veramente finito il dopoguerra in Italia?

In Italia non è finito il dopoguerra. Un conto è mantenere alto il sentimento della Memoria con tutto il significato che questo mausoleo di parola comporta, e altro affare è aver voluto prolungare quel periodo storico. A me è sempre parso un palcoscenico dove attori principali e stracche comparse continuavano a recitare la loro parte; in fondo lo facevano per mettersi al sicuro, per avere visibilità e approvazione. Non parlo naturalmente della povera gente, gli ultimi ed i penultimi… quelli sì che abbraccerei con orario continuato. Mi riferisco agli “astuti”, ai “riciclati” e ai “riciclabili”, ai galoppini, agli intrallazzatori. Il dopoguerra finirebbe soltanto in un modo: l’abolizione dei privilegi. A quel punto le dichiarazioni di principi morali, i buoni propositi, il canto ininterrotto da parte di “piissimi uomini” non varrebbero più: o dentro o fuori. Le parole!… Tutti bravi a chiacchiere, ma senza più privilegi dovrebbero finalmente (finalmente!) lavorare e la pacchia (la pacchia!) sarebbe finita. E invece in questa ambiguità continuano a sguazzare. Abolire i privilegi, da scriverci un romanzo di mille pagine. Soltanto da lì ci si potrebbe contare. Che bello, a quel punto, potersi guardare negli occhi e riconoscersi. Tutto il resto, come si sa, è letteratura.

Tra le fotografie in Appendice, molte sono di suo padre in divisa. Lei a un certo punto afferma: «Certo, sarebbe stato meraviglioso se le fotografie avessero riguardato soltanto passeggiate per la città, gite al mare, azioni di gioco nei tanti campi di calcio nella Roma degli anni Trenta». È questo un suo grande rimpianto, quello che suo padre abbia sprecato gli anni più belli della giovinezza per la patria e come quasi tutti i reduci non abbia ricevuto alcun riconoscimento, anzi solo frustrazioni e fatiche? A questo proposito in Appendice i lettori trovano anche una lettera di Giuseppe Berto del 1972. Anche lo scrittore veneto, autore de Il male oscuro, era stato fatto prigioniero in Africa nel 1943 e da lì era stato condotto nel campo di concentramento americano per non cooperatori di Hereford. Anche lui ormai cinquattottenne nel 1972, refrattario a schierarsi nella logica fascisti/antifascisti, si presentava come un “isolato” e “afascista”.

I dieci anni donati alla patria e l’erigenda Repubblica che chiede a mio padre e al fratello Fernando – tornato cadavere dalla Germania – i documenti a comprova dello stato di reduci. Con la casa lesionata dal bombardamento americano sull’aeroporto di Centocelle nel gennaio del 1944 – gli esiti estremi in volo giunsero anche nel nostro quartiere – e con nessuno a casa che aveva un lavoro, a mio padre chiedevano di mostrare (di mostrare!) lo “stato di bisogno”. Oltretutto vi era anche una disposizione di legge che prevedeva l’assunzione immediata degli ex internati. E allora? Mio padre presentò tutti i documenti richiesti ma la risposta la stiamo ancora aspettando. Può darsi che una lettera raccomandata arrivi prima o poi, fuori tempo massimo ma che importa, ci scriverei un romanzo di altre mille pagine. Nel mio libro i documenti fotografici li avevo tutti esibiti, mi muovevo per tabulas e non per chiacchiere, ma erano troppi, come del resto le circa cinquecento pagine che originariamente componevano il libro. Certamente, senza la guerra e quel periodo, mio padre avrebbe avuto, come del resto tutti gli altri cittadini italiani, un’altra vita, la spensieratezza a dirla con una parola, e le fotografie così sarebbero state di certo altre: ben disteso egli sia negli scenari più che dignitosi della periferia, che nel geometrico ed affrescato fondale del centro storico.

Tra i frammenti che cerca di recuperare, oltre ai ricordi, ci sono anche parole come “stangapiazza” e “langoni” e modi di dire, ad esempio “il sole degli zingari”. Del resto oramai anche quartieri popolari come il Suo, il Quadraro, sono multietnici. Oggi queste parole e modi di dire veramente non si sentono più neppure nella periferia estrema?

Quelle parole si sono dissolte come le persone che le pronunciavano. Il fatto che m’inquieta è che tutti le abbiano dimenticate. Scansando ogni idea di presunzione dico che senza il mio senso della Memoria e il mio dolore proprio quelle parole non sarebbero più tra noi. Semplicemente i figli non hanno ascoltato nonni e genitori e quelli della mia età s’adoperarono in altre faccende, inseguendo chissà quale sublime. Sono felice di aver avuto la predisposizione e dunque il cuore, prima ancora della mente, volto verso certe immagini, alle frasi che mi accadevano intorno. Ricordarmi delle parole “stangapiazza”, “langoni” e “il sole degli zingari” non soltanto è rammentare ulteriormente mio padre ma, credo, sia anche lasciare qualcosa alle nuove generazioni, nelle quali, lo so, vi sono molte anime attente, in ascolto, affamate di sapere e rispettose per chi è disceso sulla Terra qualche decennio prima di loro. Nella periferia estrema non si sente più nulla di tutto questo e il canto non si concentra che sull’imitare modelli consolidati, dove c’è l’approvazione planetaria, musica e moda su tutto. La periferia estrema è ipertrofica, fragorosa, infagottata, con boxer e anfibi e super cellulari, l’esatto contrario di quella solenne esilità che la periferia mostrava ai miei tempi; ma non è colpa di nessuno, ovvero è di tutti. Non posso immaginare che nei lunghi viali dei casermoni, sulle rampe dei box, nel verde attorno a inquietanti rotatorie prima dei centri commerciali si possano pronunciare queste mie parole recuperate. Ad ascoltarle, d’improvviso avrei un mancamento, ma subito dopo avvertire gioia.

La sua prosa è molto poetica e intramezzata da sue poesie, nonché ricca di immagini e citazioni poetiche (Montale, Penna, Rebora, Dickinson, Saba, Ungaretti) e fortemente descrittiva. Qual è il poeta che predilige e , se influenzato, a cui si sente più vicino per temi o stile?

Che la mia prosa sia poetica mi dona una gioia indescrivibile. Su di essa ogni editor getta la spugna perché sa bene come toccando una sola parola, salterebbe tutto; e così il mio narrare è in salvo. Egli potrà intervenire soltanto per la lunghezza, ma su questo io non posso fare nulla. Spesso parlano di ritmo ed è per questo, dicono, che danno sforbiciate al testo… Ma ad un poeta si parla di ritmo, di musica interna? Nel mio narrare procedo per immagini ed è proprio questo, credo, un riflesso della poesia. A bada tengo anche gli aggettivi, rispettandoli certo, ma privilegiando l’azione, il narrare. In tutti i poeti ci sono schegge che attraggono e a tutti quelli che ho chiamato in scena, nel libro, m’inchino. Ognuno ha la sua disperazione e solitudine. Già soltanto per questo, essi sono sostanza anche mia. Per motivi diversi li amo tutti, anche se Saba, Ungaretti e Penna li stringo a me e li accarezzo di continuo. E allora oltre alla loro intensità come poeti li amo anche per alcuni dettagli: Saba nacque lo stesso anno di mio nonno Alfonso; Ungaretti stava al fronte dove s’espose anche mio nonno, lui nel Genio Pontieri; e, quanto a Penna, m’è sempre piaciuto il suo distacco dall’ufficialità e da chi prendeva troppo sul serio la vita; inoltre ho amato la sua Roma in più momenti – dagli anni ‘30, al fragore della guerra fino alla sua lesta vecchiaia negli anni ‘70 – e poi il distillare i versi e le sue domeniche nel sole e tra l’ortaglia prima del ritorno a casa, in via Mole de’ Fiorentini, sul Lungotevere. Ma inconsci sono in me (e anche nel mio romanzo) Kavafis e Pasolini. A volte credo d’essere riuscito ad unire i due poeti, a riassumerli in me: iscrizione solenne e muro calcinato. Del resto non oscillo tra i marmi dell’antichità e le case scrostate e l’umanità di quella che una volta era detta periferia?

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“effe – Periodico di altre narratività” numero dieci

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