Lu campo di girasoli

di / 4 novembre 2011

Lu campo di girasoli è l’ultimo brevissimo romanzo di Andrej Longo pubblicato nel 2011 da Adelphi con una quanto mai appropriata copertina gialla: giallo è infatti il colore dominante di questo piccolo gioiello del panorama letterario italiano del momento. Giallo è il colore del torrido paesaggio dell’Italia meridionale, gialla la luce abbacinante, giallo il campo di girasoli che ha un ruolo da protagonista nella vicenda, come preannunciato dal titolo.

La trama, in verità, non brilla per originalità anzi svolge con prevedibilità un intreccio abbastanza classico sui temi dell’amore e del potere. Ma è incredibile il colore nuovo che prendono questi discorsi vecchi quanto il mondo, raccontati con quella lingua “spiciale” inventata da Longo. Si tratta di un certosino lavoro che non riproduce un dialetto, ma che ne crea uno ex-novo, servendosi di elementi rubati qua e là alle varie parlate dell’Italia meridionale. Il risultato è un linguaggio che si spaccia per un dialetto stretto del sud e che ha la capacità di rigenerare i tipi classici degli innamorati, dei prepotenti con il denaro, dei giusti con la coscienza a posto, del coraggioso, del vile (gli stessi dei Promessi Sposi!): i personaggi non sono più tipi, ma diventano vividi e psicologicamente complessi, la trama prevedibile si dipana con suspense.

La lingua si impone come elemento predominante nella caratterizzazione dei personaggi come se li definisse nelle loro identità. E così gli innamorati Lorenzo e Caterina non sono le ennesime reincarnazioni di Romeo e Giulietta, perché la loro parlata li rende più orgogliosi, più focosi, più di carne, ossa e sangue. Sembra quasi che la rozzezza del gergo rispetto alle raffinatezze della lingua codificata abbia una marcia in più nel dare corpo ai personaggi e spessore alla vicenda. Di conseguenza quanto mai fresco è il primo amore, brutale è l’innamorato respinto, vile è il vile, etc… Il coraggio non è un ideale ma uno schema di vita quotidiana. I personaggi sembrano dei purosangue, che camminano a testa alta e respirano con fierezza. Tanta fisicità sarebbe impossibile senza quella lingua dura e riserbata che Longo crea per l’occasione.

Un’altra trovata ben riuscita dell’autore è l’andamento altalenante della vicenda che si sposta continuamente su piani temporali diversi. Questo modo di procedere circolare, che fa un passo avanti solo dopo aver recuperato qualche episodio del passato, è come un bel ricamo in cui per chiudere il lavoro si passa e si ripassa per lo stesso punto eppure nessun movimento è sprecato e  nessun elemento è inutile, ma solo alla fine tutte le parti trovano un senso completandosi a vicenda. Così procede Longo sia nella costruzione della vicenda sia nella definizione dei personaggi. E i personaggi sono proprio i suoi capolavori: i protagonisti, costruiti con rapide pennellate, ma ancor più quelli che si affacciano nella vicenda per poche pagine o per poche righe e che sono delle macchie di colore locale, come il prete che ballando la pizzica scopre le gambe pelose, il poliziotto che si barcamena come meglio può tra le complicatezze del sistema giudiziario italiano, il nonno con la sua bonaria saggezza, la mamma, guardiana del focolare domestico.

Ancora una volta è fondamentale il ruolo della lingua che racconta i personaggi e che essi parlano e con cui sono tutt’uno quasi che senza quella parlata perdessero consistenza: essi si giustificano e si realizzano completamente con e grazie a quella lingua.

Il romanzo, nonostante il finto dialetto (o forse grazie?), risulta facilmente leggibile, scorre veloce ed è nel complesso una lettura affascinante.

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