“Atti Impuri” #3: a tu per tu con Sparajurij

di / 17 novembre 2011

Ciao. Ho tra le mani Atti Impuri, volume terzo. Un ottimo numero, forse a mio avviso il migliore. Non posso dirlo con certezza però: quando lessi il primo volume, ero in un brodo di giuggiole. “Finalmente una rivista con i contro…” mi ero detto. Lo confermo. Al suo interno c’è il forte desiderio di creare qualcosa di importante. Con autori interessantissimi. Insomma: complimenti. Puoi spiegare cos’è questa rivista ai nostri lettori? Un giorno chissà spigheremo noi ai vostri fedelissimi cos’è Flanerí.

Atti Impuri è un luogo di paesaggio, dove si incrociano cultura e natura, quindi anche un luogo di distruzione, a essere ottimisti. Allo stesso tempo un luogo dell’attenzione infinita. Attenzione per vecchie e nuove scritture che non seguono né salgono sopra il carro trionfale dell’attualità. Mondi in costruzione, inattesi e sospesi nell’imperfezione a volte, ma una imperfezione che smuove l’immaginazione con intensità improvvisa.
La rivista è dedicata alla misura breve, in prosa e in versi. Del resto la nostra tradizione si poggia sul sonetto siciliano così come sulle raccolte di novelle – dal Novellino al Boccaccio – che hanno sempre alimentato la nostra fantasia e il nostro senso comune. È un’opera a più voci perché vuole essere un’opera di grande immaginazione e “sapienza poetica” così come la intendeva Giambattista Vico, per il quale la fantasticheria è un filo che collega gli uomini, non un’esperienza destinata alla solitudine nel tempo e nello spazio.

Il primo numero è la sorpresa, il secondo è doveroso, arrivare al terzo è già una piccola vittoria. State costruendo una delle riviste più interessanti italiane: ne siete consapevoli? Vi sentite già pronti di fare un piccolo bilancio?

Non ragioniamo mai in termini di vittoria o di sconfitta. Sono parole che ambiscono a essere fantasmi, ma che non hanno sufficiente respiro per dissolversi e confondersi con le immagini. Aristotele le chiamava, appunto, phantasma e phantasia. Questi primi tre numeri coprono poco più di un anno di attività. L’unico bilancio assodato, come redazione, è che siamo diventati più asociali e scontrosi tra noi. Ed essendo uno degli obbiettivi di partenza, al momento, il bilancio è positivo.

Una cortesia. Spieghi (a me e ai lettori) il perché di Sparajurij? Il nome deriva dalla canzone di Giovanni Lindo Ferretti (ex CCCP, ex CSI, ora PGR) e va bene: ma poi? Mi verrebbe da chiederti anche cosa ne pensi della grande svolta effettuata dall’artista emiliano ma forse c’entra poco con l’intervista.

È stata una scelta di marketing: è semplice da scrivere e ha un respiro internazionale, all’estero si pronuncia bene [trattasi di figura retorica dell’antifrasi, ndr]. Sulle scelte personali di Ferretti, riguardo alla fede in particolare, non è necessario commentarle e parlarne. Né si capisce perché lo faccia lui. Ci piace pensare che quelle ripetute “confessioni” siano scariche pulsionali come tributo all’ego confuso di tutti.

Tra gli autori di questo numero ho letto Giuseppe Schillaci. Ho pensato subito a Totò, eroe di Italia ’90. Poi leggo la biografia: non è lui (anche perché, pensandoci bene, si chiamava Salvatore). È un giovane scrittore, della generazione a cavallo tra i settanta e gli ottanta. L’ho trovato molto bravo. Poi ho letto gli altri autori: molti li conosco da tempo (Candida, Ardizzone, Tetti). Ma perché il grande mercato editoriale non inizia a puntare su di loro? Sarebbe ora…

Il mercato editoriale – piccolo o grande in questo caso non fa differenza – non punta affatto sulla misura breve, racconto o poesia. Spesso si utilizzano le medesime logiche di un’economia che flirta incessantemente e apertamente con l’usura. Questi stessi criteri infatti, applicati all’editoria, usurano il testo, logorano la materia verbale fino alla cancellazione della memoria e del futuro. Un discorso simile può essere fatto sugli autori stranieri tradotti in Italia. Le scelte, in diverse aree geografiche quali l’est o la Russia, nello specifico, non sono più legate a censure politiche preventive, ma alla censura del mercato che produce lo stesso risultato. Oggi, i migliori scrittori russi degli ultimi vent’anni, se non diventano casi di cronaca per qualche ragione, non vengono tradotti e si preferisce puntare sui vincitori di premi letterari discutibili o sui best sellers in patria. A noi facilità il lavoro poiché abbiamo a disposizione una miniera da cui estrarre inedite gemme.

La qualità dei testi proposti è molto alta, da tanti punti di vista. Come vengono scelti? Avete dei parametri?

Non cerchiamo solo dei testi, ma dei progetti di scrittura. Progetti ambiziosi che conservino il coraggio di esporre la propria illusione e far traboccare le nostre aspettative in meraviglia. Almeno per qualche istante.

Atti impuri è un luogo di scrittura. Esistono anche all’interno delle città questi luoghi?

Le città visibili e invisibili, che salgono e che scendono, le città vecchie e le città giovani si sono sempre offerte all’immaginazione e alle rêverie più improbabili. Se invece il riferimento è  alle politiche culturali, ogni città ha le sue colpe. Basti pensare al modo in cui una manifestazione come “Biblioteca in giardino” è stata cancellata dall’amministrazione milanese.

Vi occupate anche di poesia. Qual è lo spazio della poesia oggi? Perché, secondo voi, è uscita dal dibattito culturale? Hai seguito il dibattito di Cortellessa apparso quest’estate sul Corriere della Sera?

La poesia in Italia somiglia molto a un campionato di calcio dilettantistico. Coi suoi furori, le sue risse e la sua assoluta mancanza d’infinito e di talento. Esistono le eccezioni, ma sono poche disperse solitudini. Atti Impuri dedica un monografico in ogni numero a ciascuna di queste visioni sradicate e sbandate.

Come sta andando la rivista? Dove sta andando Atti Impuri? Dove siete diretti?

La persona più indicata a rispondere è il nostro editore. Leonardo Pelo nell’ambiente editoriale è una figura molto nota per il coraggio e la ormai lunga esperienza di “agitatore culturale”. Atti Impuri è anche un omaggio a un suo riuscito progetto degli anni novanta: la rivista Addiction. Noi lo abbiamo conosciuto a Ricercare nel 2002. E ci sembrò subito l’unico editore che manifestava un’evidente ebrezza mentale e che aveva l’ambizione di un progetto culturale diverso da quello mainstream. Tutti gli altri cosiddetti “piccoli editori” scimmiottavano i “grandi” promuovendo testi con una completa adesione al presente e al pensiero dominante, che è appunto l’immediata molto mediata cronaca dei nostri tempi. Noi abbiamo deragliato dal presente – fare una rivista cartacea lo testimonia – e non sappiamo verso quale atemporalità siamo diretti. A un certo punto si muore, questo è garantito.

Novità per il futuro? Ci puoi dare qualche anteprima?

Pare che dal 2012 non sarà più possibile smettere di fumare. Per cui dal prossimo numero cercheremo di lasciare scorrere maggiore aria tra pagine della rivista, cercando nuove soluzioni grafiche, introducendo illustrazioni e interviste oltre a offrire sorprese inaudite per gli abbonati. Ci stiamo attrezzando, in ultimo, per realizzare versioni digitali che ci permettano di andare oltre i toni di grigio cui dobbiamo attenerci sulla carta per ragioni economiche.

In bocca al lupo per tutto. Andate avanti così che siete grandi.

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