“Il cavallo di Torino” di Béla Tarr

di / 13 gennaio 2012

Prende l’avvio dall’aneddoto di una pazzia, A Tórinói ló, il film del regista ungherese Béla Tarr che ha ricevuto il Premio Speciale della Giuria alla Berlinale 2011. Non si tratta tuttavia di una pazzia qualunque, poiché quella alla quale s’ispira Béla Tarr è la pazzia di Nietzsche: lo “stato di alterazione mentale” nel quale il filosofo tedesco sprofonda durante gli ultimi dieci anni della sua vita dopo aver assistito, si dice, al pestaggio di un cavallo da parte di un cocchiere, per le vie di Torino.

Così come nelle pellicole precedenti, anche ne Il Cavallo di Torino dominano il bianco e il nero che – con l’annichilirsi dei colori – mettono in rilievo il contrasto della luce e dell’ombra, essendo l’oscurità uno dei tratti intrinseci, oserei dire intimi, del fare e del sentire del regista ungherese. Il film si avvale di poche presenze: un padre, una figlia e un cavallo. Il loro è un universo di dipendenza reciproca che rischierebbe di disintegrarsi in mancanza di uno di questi tre elementi.

Il film non narra: mostra, piuttosto. È una pellicola fisica, brutale nella maniera di filmare e di mettere in scena una natura ostile, un tempo ciclico, un ripetersi di eventi che nel loro sovraccarico di significato finiscono col perdere di significato. Lo stesso vale per il tempo. Michael Bachtin, nel suo Estetica e romanzo, definiva il cronotopo messo in scena da Flaubert in Madame Bovary una relazione spazio-temporale statica poiché il tempo era privato, a causa dell’ambientazione in un piccolo borgo di paese, del suo discorso storico progressivo. Credo che lo stesso si possa dire de Il Cavallo di Torino. Anzi, quest’affermazione è ancor più vera nel film di Béla Tarr non soltanto per la coincidenza delle epoche che vuole le due opere situate nel XIX secolo: anche, perché il microcosmo da lui rappresentato è ancora più piccolo e il tempo ancora più tautologico.

Il progredire degli eventi è allora “spesso”, “vischioso”. Nell’esasperare l’attesa, la si vanifica. Nel figurare l’essenza realistica dei diversi piani-sequenza, il film sfiora l’astratto proprio nel suo eccesso di realismo. La poesia dell’immagine si dipana così tra il fisico e il metafisico, in una realtà che è solamente un divenire, un pro-forma mentis che chiede allo spettatore uno sguardo non di fruizione intellettuale e intellettualistica, ma di sentimento immediato, sia nei confronti del film che della realtà messa in scena dal film.

Sconosciuto al grande pubblico, l’ultimo Béla Tarr conquista la critica con il suo distacco dai canoni cinematografici odierni, con i suoi tempi lunghi (il film dura circa tre ore), con la sua capacità di cogliere – tramite i silenzi – una mistica della natura, del corpo, della terra. Chiudiamo con queste battute che lambiscono e diventano poesia, nel loro essere cinema fuori da ogni luogo e ogni tempo:«Perché il cielo è loro, e tutti i nostri sogni sono loro. A loro appartiene il momento, la natura, l’infinito silenzio. Anche l’immortalità è loro, capisci? Tutto, tutto è perso per sempre».

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