“Elisabeth” di Paolo Sortino
di Laura Mancini / 25 gennaio 2012
Un mio amico col quale gioco sempre ai critici, in un continuo palleggio di opinioni e consigli letterari mi dice: «Dobbiamo leggere Elisabeth», evidentemente interessato dal dibattito “tutto elogi” sul romanzo di esordio di Paolo Sortino. Leggo Elisabeth, e mi piace. A ogni riga una intuizione poetica (ma nitida) mi convince di stare afferrando le intenzioni sostanziali del libro, di stare osservando da vicino l’animo del romanzo. Finalmente una storia che, pur essendo ispirata a fatti purtroppo realmente accaduti, non è tutta cose e niente idea, e, come se non bastasse, i personaggi sono veri davvero, sono veri nella realtà storica, ma sono anche veri perché impressi su carta, nella loro esatta e sconcertante umanità. Certo, nulla è lasciato al caso della foga artistica su questa studiatissima pagina, a tratti anche un po’ prevedibile, come annotato da Gilda Policastro su Alias. Eppure persino frasi come «vide una finestra disegnata col gesso sul muro ma non vi si affacciò», nella loro finezza lirica, sono “giuste”, perfettamente integrate nello spirito dello scritto, rispondono alle sue palesi ambizioni, e con grande efficacia, come deduco dall’impatto che esercitano sul mio “cinico cuore di pietra”.
Il libro narra l’orribile vicenda venuta alla luce qualche anno fa, in una cittadina austriaca: un maniaco sessuale, Josef Fitzl, aveva tenuto segregata la figlia Elisabeth per ventiquattro anni nel bunker antiatomico da lui costruito sotto alla casa in cui viveva con la moglie. Dalle continue violenze sessuali incestuose, nel corso degli anni di prigionia, erano nati sette figli (tanti quanti ne aveva avuti dal matrimonio legittimo); uno, morto poco dopo la nascita, era stato gettato nell’inceneritore dal padre-nonno, gli altri sono cresciuti per metà sotto terra e per metà in superficie grazie alla simulazione di un abbandono da parte della figlia fuggita di casa (ma in realtà, come sappiamo, sepolta viva insieme a tre dei figli avuti dal padre-mostro). L’orrore dei fatti è emerso inconfutabilmente quando una figlia, da sempre segregata insieme alla madre, è stata portata in ospedale in condizioni gravissime. Sortino ne ha fatto un bel libro.
Un libro molto lavorato, o almeno così sembra, e calibrato in ogni sua sequenza con grande attenzione, attraverso espedienti narrativi funzionali al mantenimento in vita di una vicenda che si svolge tutta in una stanza, o poco più. Come lettrice ne sono appagata. Man mano che leggo, però, comincio a respirare poco bene, apro e chiudo le finestre di casa, mi sposto dalla sedia al divano, dal divano al letto. Comprendo infine di sentirmi sotto terra anche io, insieme alla protagonista, pur essendo da lei radicalmente disgiunta quanto a empatia: io vorrei che lei lottasse contro il proprio tiranno, che lo assassinasse, o che si uccidesse per vendetta. Ma non è andata così.
L’intenzione di Sortino, come ha raccontato in un’intervista rilasciata alla Fiera di Torino, è quella di narrare la felicità a tutti i costi di un essere umano desideroso di vivere, pur nella riduzione al minimo dell’esistenza stessa. L’autore fa intendere che la “lezione” (termine che sicuramente gli dispiacerebbe) di questa narrazione sta nella comprensione della possibilità dell’essenziale, una specie di Piccolo Principe a tinte nere e rosso sangue. Va bene, è un’idea molto profonda, molto interessante e molto esatta per fotografare la vicenda. Però resta il fatto che da lettrice mi sento disturbata: chi devo incolpare? Lo scrittore? La mia suscettibilità? La fenomenologia della cronaca nera? La mia femminilità? (Oddio, no!) La colpa in fin dei conti è di un pazzo folgorato di nome Josef Fitzl, oggi rinchiuso in un carcere, secondo una specie di contrappasso dantesco.
Alcuni, come Raimo, hanno ritenuto eticamente discutibile il lanciarsi su una storia di cronaca per farne un romanzo, senza il permesso di chi ne è stato dolorosamente vittima. Il che non può che evocarci Capote, e tutto il resto. Ma propendiamo per una assoluzione, che è tanto maggiore quanto più pungente diventa il fastidio della lettura. Questa lettura, insomma, provoca nel suo pubblico una reazione, lo scuote, lo induce a interrogarsi, o anche solo a spazientirsi, e questo non è poco.
Vorrei terminarlo, questo romanzo, e quando lo faccio tiro un sospiro di sollievo, con un’espressione di dubbio sul volto comprendo che anche questo è adesione a ciò che si legge.
Se dovessi indicare che cosa ho apprezzato meno, punterei senz’altro il dito contro certi patetismi che riguardano il rapporto madre-figli – specie in quei dialoghi in cui Elisabeth tenta di spiegare ai propri bambini concetti della vita di fuori, mai sperimentata da loro – o contro una lieve semplificazione della maternità in cattività. Sono forse un po’ tagliate con l’accetta alcune sequenze: i salti temporali, per quanto indispensabili, provocano una rottura tra il momento dell’analisi microscopica, minuto per minuto, e l’avvicinamento a una desiderabile fine.
Resta il fatto che questo è un bel romanzo e sapere che chi lo ha scritto è molto giovane ci rende tutti contenti, è l’ennesimo segnale che dalla nostra generazione sfigata, lobotomizzata dall’avvento informatico, affossata dalla crisi e dalla disoccupazione, compatita, schernita e autoridicolizzata, ogni tanto proviene una lodevole prova di abilità e di bellezza. Avanti così.
(Paolo Sortino, Elisabeth, Einaudi, 2011, pp. 216, euro 19,50)
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