“A.C.A.B.” di Stefano Sollima
di Fernando Bassoli / 9 febbraio 2012
Alla fine esci dal cinema, cerchi risposte sui volti, nei gesti degli altri, ma non le trovi.
Allora ti guardi dentro e, anche se all’inizio non vuoi ammetterlo, senti che i conti non tornano.
Il mondo non è quello che hai appena visto. Semplicemente non può essere ridotto così male.
Ti senti nervoso, frughi le tasche come se avessi perso le chiavi di casa o ti avessero fregato il portafogli, sistemi la sciarpa, infili i guanti per proteggerti dal gelo siberiano di questo febbraio 2012, ti chiedi «Ma cosa faccio qui?», e pensi che è stata proprio una sensazione di freddo paralizzante ad inchiodarti alla poltroncina mentre guardavi A.C.A.B. All Cops Are Bastards, del regista Stefano Sollima, tratto dall’omonimo libro di Carlo Bonini, giornalista di La Repubblica.
Dalla trasposizione cinematografica viene fuori un’opera troppo cupa e senza speranza di evoluzioni positive, che pure poggia su un’idea interessante, cioè un soggetto che vuole raccontare il mondo e le sue magagne dal punto di vista – originalissimo e minimale – dei poliziotti del Reparto Mobile.
Un vero peccato, perché il ritmo dell’azione è gradevole e gli attori sono piuttosto bravi e tagliati per la parte, su tutti Pierfrancesco Favino, a suo agio nei panni di Cobra.
Già, Cobra, perché fin dai “nomi di battaglia” scelti c’è traccia di scarsa fantasia.
Nell’Italia post-Romanzo Criminale non ci vuole molto a battezzare un celerino Negro o Mazinga, si poteva fare di meglio. Ed era opportuno non soffermarsi sul classico stereotipo polizia contro ultras da stadio modello anni ’80, che ormai ha fatto il suo tempo… ma questa naturalmente è solo un’opinione personale.
Il film, ambientato nel 2007, sembra restare prigioniero della stessa violenza gratuita che voleva denunciare. Ha poi il limite di sembrare influenzato dalle tipiche atmosfere stile Distretto di polizia et similia, con le classiche sovrapposizioni tra la fredda durezza delle giornate di lavoro e la bruciante complessità delle problematiche della vita di famiglia. Sovrapposizioni che finiscono per generare una certa confusione nello spettatore.
Va aggiunto che voler rappresentare questi poliziotti/mele marce tanto scaltri nell’eludere le leggi dello Stato per interpretare le norme secondo le proprie convenienze, quanto disastrosi, fino alle estreme conseguenze, nella gestione degli affetti, francamente sembra una forzatura.
Il risultato finale è dover prendere atto di trovarsi di fronte a un gruppo di omiciattoli in divisa & casco & scudo sostanzialmente strafalliti, che sfogano le loro frustrazioni nell’esercizio catartico di una violenza rituale collettiva, fine a sé stessa, che ha nel manganello lo strumento per fare (in)giustizia.
Rompere qualche testa per sfogare i nervi: un’equazione troppo banale per chi serve (nel senso più alto del termine) lo Stato. A un’opera d’arte si può chiedere molto di più.
Inoltre i riferimenti alle tristi vicende della scuola Diaz, alla morte di Raciti prima della partita Catania-Palermo e a quella del tifoso della Lazio Gabriele Sandri, finiscono per mescolare finzione cinematografica e fatti di cronaca (fiction o documentario?), con risultati incerti e classici effetti déjà vu, a volte peggiorati da dialoghi troppo prevedibili e spesso limitati all’essenziale, quasi che si raccontasse di decerebrati senza un minimo di istruzione, tutti tatuaggi, partite di rugby sotto la pioggia battente, atti di nonnismo da caserma e poster del Duce in camera che politicizzano troppo la storia.
Quanti poliziotti come quelli di A.C.A.B. ci possono essere in giro? A parer mio pochi, pochissimi.
A ben guardare questo è un film che rischia di confondere le idee all’opinione pubblica, che ha già perso fiducia nelle barcollanti Istituzioni di questo Paese e ha pure il torto di rappresentare le donne come figurette minori, dato che a farla da padrone è sempre la “morale” distorta del branco, abituato a pensare che «Chi mena per primo mena due volte» e che porta sul corpo, ma anche nell’anima, le cicatrici di tante battaglie, per poi scivolare – a sorpresa – nella trappola della retorica finale attraverso la figura di Adriano detto Spina: «Volevo fare un lavoro onesto. Per questo faccio il poliziotto». Troppo poco, i giovani di oggi hanno profili molto più complessi e ambizioni e orizzonti d’attesa che forse gli adulti non possono capire. Questo è il vero problema della nostra società.
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