“Lioness: Hidden Treasures” di Amy Winehouse

di / 18 febbraio 2012

Lasciate stare quello che avrete sicuramente letto su internet o su Rolling Stones. Sì, in parte è vero: le case discografiche triplicano i loro incassi nel momento in cui un loro artista muore tragicamente ed esce il relativo album postumo. Sarà anche una accozzaglia di brani vecchi e scartati (come qualcuno l’ha definita), di incisioni e collaborazioni messe lì in un angolo, in attesa di essere scongelate. Ma Amy è Amy. E sicuramente Lioness: Hidden Treasures è un album da gustarsi come il sole d’inverno.

Di Lei si è detto e scritto tutto, troppo. Nata a Londra da famiglia di origini ebraico-russe nel settembre del 1983, mostra in età adolescenziale scarso impegno e attenzione per la scuola, ma subito grande passione per la musica, iniziando con un piccolo gruppo rap da lei fondato, i Sweet’N’Sour. A sedici anni la svolta: viene notata da Simon Fuller (ideatore di Pop Idol) e ottiene un contratto discografico con la Island Records. Nel 2003 esce Frank, il suo primo album, grande successo che però non la soddisfa in toto, nonostante il brano d’esordio “Stronger Than Me” scali le classifiche. Il resto è storia: serate di alcol e droga, problemi con la legge, gaffe e intemperanze varie riempiono le pagine delle riveste di gossip e cronaca made in UK. Il successo planetario viene raggiunto alla fine del 2006 con l’uscita di Back to Black. Il primo singolo estratto, “Rehab”, parla proprio dei suoi problemi con la droga e con le cliniche di disintossicazione («They tried to make me go to rehab but I said “no, no, no”»). Questo è l’album che la consacra, a 24 anni, voce n.1 del soul mondiale, grazie anche al singolo “Love Is a Losing Game”. Tra il 2008 e il 2010 alterna grandi concerti con settimane in cliniche riabilitative e ne esce alla grande, ma l’abuso di alcolici dopo un lungo periodo di astinenza la stronca una notte di fine Luglio, nel 2011. È la fine di una delle migliori voci dal dopoguerra ad oggi, se non la migliore.

Nel dicembre 2011 esce l’album postumo, dodici tracce tra cover di grandi canzoni e brani inediti mai pubblicati. «Se questo album non fosse stato all’altezza degli altri due, non avremmo consentito la pubblicazione, ma invece è il tributo migliore alla grandezza artistica di Amy», sono queste le parole del padre che si è sempre impegnato per stare vicino alla figlia. Il primo singolo estratto è “Our Day Will Come”, brano degli anni ’60 di Bob Hilliard e Mort Garson, registrato nel 2002 e reinterpretato in chiave raggae: la voce di Amy si esprime al meglio, uscendo fuori in tutte le sue sfumature migliori, nella certezza (o speranza?) che «il nostro giorno arriverà e avremo tutto», meravigliosa conclusione di un amore tormentato; come del resto avviene nel duetto di “Body and Soul”, con Tony Bennett, mostro sacro della musica americana. Scontato dire come i due artisti sembrino davvero “corpo e anima” mentre le loro calde voci interpretano questo brano jazz del 1939. Ancora profonda e seducente appare la sua voce in “A Song for You” e in “Tears Dry”. Quest’ultimo è brano malinconico e intenso, uno di quelli in cui il pubblico si immedesima rivivendo magari emozioni passate vissute sulla propria pelle. Il tema dell’amore e della sofferenza legata a questo sentimento è una costante dell’album, la ritroviamo in buona parte dei testi, compreso “Will You Still Love Me Tomorrow”: chitarra, nacchere e batteria accompagnano la Winehouse in questo storico brano del 1960 scritto da Gerry Goffin e Carole King, reinterpretato da lei nel 2004. Decisamente insolito ma molto originale il singolo “Like Smoke”, cantato con il rapper americano Nas, in un riuscito mix di rap e soul o più semplicemente R’n’B, che strizza l’occhio al mercato Usa. “The Girl from Ipanema” può forse sembrare un po’ azzardato come esperimento, ma mostra l’estrema duttilità vocale in un contesto inusuale e ricco di sfumature. Inedita è invece “Halftime”, registrata nel 2002. Ancora una volta (l’ennesima) le doti vocali di Amy rubano la scena, mentre nel testo il tema del cambiamento e dell’intervallo dominano, combinandosi con una sincera descrizione di ciò che è stata per lei la musica: melodia che nutre l’anima, emozione, un dono, una benedizione che la protegge.
Nonostante tutto, il brano che coinvolge di più, sembra proprio essere “Wake up Alone”: fuorisce tutto il senso di solitudine e disperazione di Amy, che mostra la sofferenza per un amore travagliato, oltre ai vari tentativi di trovare rifugio in piccoli gesti quotidiani, per distrarsi e non soffrire. Come del resto avviene in “Valerie” e “Best Friends, Right?”, altri contesti densi di sensazioni forti e tristezza, mentre pianoforte e coro seguono Amy in “Between the Cheast”, lenta ballata d’altri tempi in un misto di amore, amarezza e ironia.

Che dire di più? Penso basti così. In questi anni troppe volte si sono accesi dibattiti sul personaggio Winehouse, sulle sue abitudini, debolezze, problemi. È stato troppo facile per i media sparare a zero su una ragazza che sicuramente avrà commesso tanti errori, ma che si è trovata a gestire il successo e un’attenzione mediatico/musicale eccessiva a soli 24 anni. Allo stesso modo è stato facile criticare questo album, riducendolo a insieme di brani accantonati e cover di pezzi sentiti e risentiti. Il disco merita di essere ascoltato almeno una volta perché regala ancora forti e intense emozioni, grazie a una stupenda e unica voce, senza paragoni. The queen of soul is not dead.

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