Da Berlino conferme di una nuova prospettiva per il cinema italiano?

di / 21 febbraio 2012

Il cinema italiano che vince a un festival, quello di Berlino poi, dove non accadeva da una ventina d’anni, è già una notizia. Non che a Berlino ultimamente si sia visto questo gran cinema, ben inteso: Locarno è probabilmente divenuto il terzo miglior festival al mondo e anche Toronto oramai non scherza affatto. Il dato però resta e fa maggiormente sensazione se a vincere sono i fratelli Paolo e Vittorio Taviani, senza offesa per nessuno, non esattamente il nuovo che avanza. Non è però tanto il valore in sé del film a interessarci. A colpire e far riflettere, oltre all’apprezzamento per un prodotto culturale italiano da parte di una giuria internazionale (capeggiata in questo caso dal britannico Mike Leigh) è soprattutto la tipologia di tale prodotto, che spinge verso alcune considerazioni più generali.

A Rebibbia, da anni, è in atto un progetto di teatro all’interno del carcere che, oltre a essere lodevole socialmente, ha prodotto e produce spettacoli di grande qualità. Attorno a tutto ciò ruota Cesare deve morire, sorta di docu-fiction sulla messa in scena del Giulio Cesare di Shakespeare all’interno delle mura del penitenziario.

A Berlino l’unica altra presenza italica, sebbene fuori concorso, era Diaz, di Daniele Vicari, un film che, tanto per capirsi, recita sulle note di copertina la frase di Amnesty International: «La più grave sospensione dei diritti democratici in un paese occidentale dopo la seconda guerra mondiale».

Nelle sale italiane, giusto qualche settimana fa, imperversava l’esordio alla regia cinematografica di Stefano Sollima, quell’A.C.A.B. che racconta con durezza e senza sconti la vita degli appartenenti al reparto celere della Polizia di Stato. Curiosamente, in contemporanea, nel resto delle sale dominano commedie più o meno romantiche e più o meno comiche, che incassano milioni ma che lasciano un diffuso senso di mediocrità, lontane anni luce dalla gloriosa commedia all’italiana di un ormai lontanissimo tempo che fu. Dopo l’auto-implosione dei drammoni generazionali alla MuccinoVirzì sembra dunque che in Italia si stia tornando autorialmente a puntare su un cinema che potremmo definire “civile”, sulla scia di una tradizione solidissima che sembrava oramai sparita. Difficile prevedere cosa accadrà e se questa vittoria festivaliera, unita al riscontro degli altri film citati, possa segnare un rafforzamento di questa tendenza. Di certo, importante potrà risultare il consenso internazionale e l’eventuale accoglienza che i paesi stranieri riserveranno a questo tipo di approccio. Berlino potrebbe essere dunque un primo importante passo e un altro segnale positivo, in tal senso, viene dalla produzione francese dietro il prossimo film di Michele Placido che, stando alle anticipazioni, sarà un noir alla maniera transalpina, quindi con evidenti rimandi “civili”.

Sempre poi che a noi italiani questi film piacciano davvero.

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