“Diario di un uomo superfluo” di Ivan S. Turgenev

di / 11 aprile 2012

Siamo sempre compiaciuti quando possiamo cogliere un talento fresco, di primo polline, un autore neonato di cui siamo certi parleranno in parecchi, tra corridoi di premi e di pagine, pronti a sfidarsi in lunghezza. Recensire vuol dire anche questo, camminare su un prato e scegliere un fiore. Sentire il fortore che gronda sul dito mentre lo stiamo sfogliando. E poi innamorarsene, fino all’ultimo petalo. Già finito e già nostro.

Lo scrittore di oggi è un certo Ivan S. Turgenev, un giovane nato a 400 km da Mosca, ovvero molto lontano da questa città, ma non sapendo menzionare un altro luogo limitrofo che ci racconti qualcosa, ci faremo bastare questo segmento. Credendolo breve. Come annunciato, è lui il nome di oggi. Sì, ma oggi che giorno è? E di che anno? Il 1850? Forse. Un’epoca strizzata da grandi contrasti, imbavagliata dal sentore di guerre letali, come tutte le guerre, che promettono pace offrendola eterna, dietro una lapide. I moti d’indipendenza hanno storto l’Europa, rovesciando poteri di marmo e seminando nuovi profumi. Di tutto questo, però, nel nostro libro nessuna traccia.

Perché? Perché il suo titolo ci ha già risposto. Stiamo pascolando nel Diario di un uomo superfluo (Voland). A comporlo è Culkaturin, un ragazzo già vecchio nei suoi trent’anni inoltrati che sa di dover morire.
Ma non come lo sa ciascuno di noi. Lo sa perché la morte lo vezzeggia, lo accudisce con premura e gli soffia nell’orecchio che manca proprio poco. Così Culkaturin scrive, verga i suoi giorni di coda, per poi trovarsi a sprofondare in quelli più lontani. Scrive perché non gli resta altro, se non la sua badante e troppi ettolitri di tè. Scrive per riconquistarsi, come ultimo atto di possesso di una vita che sta gocciando via, che si è asciugata troppo in fretta. E che forse non gli è mai appartenuta. Nasce figlio scontento, di una madre energica e di un padre inconsistente, impegnato a giocarsi ogni cosa, ovvero quel poco che ha, a maledire se stesso e poi a farlo di nuovo, in una spirale che lo corrode anche agli occhi del suo bambino. Che lo rende monco, anche quando lo accarezza. Cresce accanto a precettori nostalgici e diventa grande solo per la sua età, perché nessuno sembra accorgersi di lui. Come se fosse appena percettibile. E chi gli stringe la mano stringe un’assenza. Chi lo incontra esclama: «Ehi, allora ci sei anche tu!». È un uomo non pervenuto, una creatura aggiuntiva, di cui non si avverte il bisogno; un quinto cavallo rimasto impigliato nella carrozza, zampe che corrono loro malgrado. E quando incrocia l’amore, la tendenza non cambia. Sbarca in un posto innominato, atemporale, ospite di un funzionario del distretto e della sua famiglia. E s’imbatte in Liza, sua figlia, con cui conversa e passeggia sentendosi felice, sentendo che forse stavolta sarà diverso, che il suo viso per un altro può fare la differenza, respirando quelle settimane come un miracolo in mezzo alle foglie. Ma il suo sangue è incolore e i suoi passi non lasciano impronta. Anche per lei.

Bussa in casa un principe e lui, già tanto flebile, smette di esistere. Liza s’invaghisce del nuovo arrivato e in poco tempo lo ama perdutamente, mentre Culkaturin galleggia sullo sfondo, pallido e ridicolo. E a nulla servono gli affannosi tentativi di richiamare l’attenzione, perché nessuno si volta, se non per deriderlo. Culkaturin capisce bene, anche dal suo cognome, padroneggia a pieno la sua avara condizione. Sa di essere opaco, sa di essere superfluo, appunto. È lui stesso a battezzarsi in quest’acqua e ricorre all’etichetta, perché è quella che lo impalma, che riesce a descriverlo meglio di qualsiasi altra. Non superficiale, accorto e inclinato solo verso il superfluo, come un dandy wildiano o un Andrea Sperelli che vive a rebours. Superfluo egli stesso, un ignavo dantesco chilometri e secoli oltre il girone. Un inetto sveviano ante litteram, un personaggio che non può, nonostante sia quasi l’unico ad abitare l’intera vicenda, diventare un protagonista. Nemmeno della sua storia. Un debole forte abbastanza da afferrare la sua debolezza. E struggersi fino alla fine. 
Inserito alla perfezione nel paesaggio degli inutili, gli stessi di cui parlava Celine, i corpi grigi di Kafka, i senza qualità di Musil, gli infiniti Oblomov che popolano inchiostri e letture grandiose. Gli Adriano Meis che non sanno chi sono, che si ritrovano ad apprendersi defunti. E che probabilmente lo sono sempre stati. Quelli che come molti di noi non reputano mai di essere all’altezza. Gli invisibili costretti a ravvivare la tappezzeria del mondo. A guardare gli altri vincere o battersi. Ad agognare anche un solo orfano attimo di stima. A sforzarsi per sempre senza riuscire neanche una volta.

Nella bella traduzione di Alessandro Niero, il giovane Turgenev, col suo tratto immediato e pungente, con un linguaggio colto e delicato, sottile al punto di tagliare, ci parla di loro attraverso Culkaturin. Ci mostra un uomo acuto e sensibile. E per questo ferito ogni giorno, ogni minuto, in prima istanza da se stesso. Dalla sua congenita impotenza. Dalla consapevolezza di non raggiungere gli altri. Di restare quello che chiude la fila e che potrebbe anche sparire senza causare nemmeno una domanda.

Recensisco con piacere quest’autore emergente di appena 194 anni. Perché non siamo nel 1850, ma molto più in là. Almeno secondo i giri del sole. Ma quando chi scrive ci regala uno specchio, una stanza grandissima in cui sistemarci e piroettare con le stesse incertezze degli altri, allora quello stesso scrittore continuerà a emergere. O quanto meno non affonderà. Sarà sempre un ragazzo, lo stesso di quando impugnò quelle righe, ignorandoci tutti, ignorando ancora e per sempre chi lo avrebbe sfiorato domani.


(Ivan S. Turgenev, Diario di un uomo superfluo, trad. di Alessandro Niero, Voland, 2011, pp. 104, euro 8)

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