“Il senso dell’elefante” di Marco Missiroli

di / 26 aprile 2012

Siamo abituati sempre più a scrittori dalla presenza ingombrante per cui le loro opere passano in secondo piano rispetto al “Personaggio” (da notare la maiuscola). Ogni tanto però, per fortuna, capita di imbattersi in romanzi che bastano a se stessi. E allora è il libro ciò che veramente conta. Con la sua copertina, il titolo e i personaggi che vi si agitano dentro.

Questo è il caso d Il senso dell’elefante dello scrittore riminese Marco Missiroli edito da Guanda.

Bella è la copertina: il giallo acceso della finestra di un palazzo immerso nel blu cobalto della notte è sorvegliata da un uomo la cui ombra è un enorme pachiderma. Accattivante è il titolo: l’elefante è quell’animale aggressivo e isterico, che però, al di là dei legami di sangue, ha slanci di devozione verso tutti i piccoli di un branco matriarcale dove chi comanda è la femmina. L’istinto incondizionato alla protezione: è questo il “senso dell’elefante”. Commoventi e vivi sono i personaggi. Sono tante solitudini che si ritrovano.

Il senso dell’elefante è una storia di padri, più o meno consapevoli, più o meno disperati. La paternità è un inseguimento continuo su una bicicletta vecchia riverniciata di rosso. È questa la sfida del romanzo. Padri che si muovono sul filo del rasoio sospesi nel vuoto e in equilibrio precario. Padri fragili, più figli dei figli, non più figure forti e autoritarie. Padri alla ricerca dell’affetto negato o che rischia di essere tolto.

Pietro, abbandonato l’abito talare, è partito da Rimini per diventare portinaio di un condomino di Milano. Il perché ha deciso di accettare questo posto e di lasciare la sua amata città marinara per le nebbie del capoluogo lombardo è legato alla motivazione che ha sancito la sua rottura con Dio, l’unico padre da lui conosciuto. Pietro era un prete che più che confessare, ascoltava, più che redimere le anime peccatrici, è abile nel curare le piante, consolava più che con le parole con le ombre sghembe proiettate sui muri.

Come portinaio Pietro custodisce le chiavi di tutti gli appartamenti appese alla parete del bugigattolo della portineria. Non le tocca mai tranne una che lascia scivolare in tasca di nascosto anche a se stesso. È la chiave che apre l’appartamento al secondo piano del dottore di oncologia pediatrica Luca Martini. Non c’è alcuna morbosità che spinge l’ex prete a violare l’intimità dell’apparentemente felice famigliola composta dal dottore, la giovane e bella moglie Viola e la loro figlioletta Sara. Pietro entra. Accarezza la fotografia del piccolo Luca in vespa all’ingresso. Calza le ciabatte del dottore e dal cesto dei ninnoli prende un campanello arrugginito di bicicletta che aggiungerà a tutti gli oggetti del suo passato che conserva in una valigia e in delle scatole nel suo gabbiotto: una forcina appartenuta a una strega, tre capelli spezzati e una lettera di carta di riso. Gli oggetti sono i veri protagonisti del romanzo in quanto custodi delle anime dei possessori: il basco del padre morto del ragazzone strambo del primo piano, Fernando, che vive con la madre iperprotettiva Paola, la vestaglia con le babbucce di seta dell’avvocato omosessuale Poppi.

Il palazzo è un microcosmo dalle pareti tanto sottili che si possono ascoltare parole, pianti, risa e sospiri. Tutte queste persone sono unite da legami invisibili, quasi impalpabili, ma dotati di una resistenza solidale a cui dà espressione proprio l’avvocato, vero protagonista occulto che muove questi padri alle prese con i loro nodi irrisolti fino al viaggio catartico in una Rimini invernale. Ed è la forza dello stare insieme a permettere di superare la solitudine e a sbrogliare i fili.

Missiroli dissemina questa sua favola per adulti di una serie di segreti. Segreti da mantenere più che rivelare. Segreti che legano più che dividere.

Mentre la trama si costruisce progressivamente da sé soprattutto attraverso gesti quotidiani resi da un linguaggio molto visivo, vengono trattati temi quali la paternità, l’eutanasia (toccante la storia del benzinaio e del figlio malato,per non parlare della storia del piccolo Lorenzo), tradimento e fede, con discrezione e in modo quotidiano, con la forza di uno stile terso e preciso sia sul piano lessicale che del ritmo del racconto. Anche gli intercalari in dialetto romagnolo nelle scene rievocative del passato del giovane prete hanno una funzione straniante e malinconica, messi lì a fare macchia e a caratterizzare asprezze e tenerezze ambientali senza mai scadere nel patetismo.

Lo scrittore riesce a far sublime dal quotidiano, tenendo fermo lo sguardo su poche cose, gli oggetti dell’appartamento di Pietro, fantasmi. È allora che viviamo tutta l’intensità di una storia triste e coinvolgente fino al gesto finale che dà un senso a tutto. Il senso dell’elefante, appunto.

 

 

(Marco Missiroli, Il senso dell’elefante, Guanda, 2012, pp. 235, Euro 16,50)

 

 

 

 

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