“A est dell’Occidente” di Miroslav Penkov

di / 6 novembre 2012

A est dell’Occidente, di Miroslav Penkov, è un libro di racconti intenso e profondo, di un autore giovane ma di evidente talento, capace di raccontare e intrecciare con grande abilità mondi mai vissuti, mondi quotidiani e la sua esperienza di straniero in terra straniera. Ogni racconto ci fa l’effetto di un cortometraggio: le sue descrizioni, le sensazioni che evoca, il loro inizio in medias res che sembra riempire lo schermo poco dopo i titoli d’apertura e la loro ultima pagina, che provoca in noi un leggero smarrimento, l’impressione di essere lasciati come in sospeso.

«Che cosa tiene legato un uomo alla terra o all’acqua, mi chiedo, se non quello stesso uomo?» L’attaccamento dell’autore alla Bulgaria, sua terra natale, è un’ingombrante presenza che permea tutti i racconti: i suoi protagonisti, fortunati vincitori di una green card o novelli esploratori di una sorta di terra promessa, presto si accorgono del pesante fardello che si portano sulle spalle fin dall’arrivo nel Nuovo Continente, il fardello dell’esule, del solitario, del nostalgico che sente la mancanza della propria famiglia, dei propri vecchi e dei propri morti. Eppure non vi è nulla al mondo magnetico come gli Stati Uniti: l’autore, che vi risiede dal 2001, ha ceduto ai suoi personaggi le proprie aspettative, i propri desideri e le proprie speranze e forse – ma questa resterà una semplice congettura – ha riversato in loro le proprie paure. Tutti questi temi sono sparsi per tutte le 245 pagine del libro, ma sono evidenti in due brani in particolare. Il primo è quello che dà il titolo al libro e che ci apre gli occhi su un piccolo universo: a est dell’Occidente, infatti, troviamo una Bulgaria afflitta dal regime comunista che guarda con curiosità e invidia agli stati liberi, a quelle persone che vivono oltre confine e che, un tempo, erano bulgari, parte di una “Grande Bulgaria” compianta, ormai inesistente. L’Occidente, meta ambita, in Penkov si rivela in fin dei conti una delusione, il luogo dove si può vivere bene unicamente a patto che ci si scrolli di dosso il proprio passato e la propria identità. Questo è quanto emerge chiaramente anche da “Devshirmeh”, l’ultimo racconto di questa raccolta, e il secondo che meglio si presta alla presentazione dei temi principali del libro. Qui marito e moglie, bulgari emigrati negli Stati Uniti, e divorziati dopo poco tempo dal loro arrivo, non potrebbero vivere due esistenze più diverse: il primo ha lasciato una parte di sé in Bulgaria, nella speranza di quello che, un po’ banalmente, oggi definiremmo un ricongiungimento familiare, e si esprime quanto più possibile nella propria lingua materna, insegnandola alla figlia perché non dimentichi le sue radici. L’altra invece, totalmente occidentalizzata, parla solo inglese, non vuole assolutamente che la figlia utilizzi il bulgaro, in nessun caso (rovinerebbe il suo inglese), e si atteggia da “nuova ricca”, sempre pronta a spacciarsi per chi non è: grazie all’abbandono dell’identità precedente, alla scissione della sua persona, delle sue origini e della sua storia, ha potuto godere di un’emancipazione che le permette di vivere al meglio la sua esperienza da neo-occidentale, senza rimpianti e senza rimorsi.

Come l’America non si dimostra la panacea di tutti i mali, nemmeno la Bulgaria esce indenne dall’analisi dell’autore: politici corrotti, che possono dire qualsiasi aberrazione purché chiedano scusa subito dopo – un’immagine a dir poco attuale –, fame e povertà, pregiudizi e invidia. Miroslav Penkov è spietato nei confronti di tutto quanto circonda i suoi personaggi, li lascia in un limbo, perfettamente al centro dell’odi et amo delle loro emozioni e dei loro desideri, alla mercé della nostalgia, di quel “richiamo del sangue” che è il comune denominatore di tutti i racconti. Racconti che narrano degli anni della Bulgaria comunista, degli Stati Uniti attuali, di epoche passate in cui la Bulgaria era la “Grande Bulgaria”, quel paese in grado di inorgoglire i più fieri nazionalisti, e che lo fanno in un modo schietto, che si potrebbe definire, osando un po’, neutrale, con un climax di stati di apprensione e angoscia che sono una prova evidente della capacità narrativa dell’autore e della sua traduttrice.

 

(Miroslav Penkov, A est dell’Occidente, trad. di Ada Arduini, Neri Pozza, 2012, pp. 245, euro 16,50)

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