[RomaFilmFest7] Settima giornata

di / 16 novembre 2012

È un film di ritorni, A Glimpse Inside the Mind of Charles Swan III, presentato in concorso ufficiale tra le risate e gli applausi della stampa. Ritorni che ti fanno chiedere: «Sì, vabbè, ma perché finora nulla?» Perché Roman Coppola, dieci anni dopo il suo unico lungometraggio CQ, torna alla regia con una commedia esistenziale buffa e stralunata alla Wes Anderson (i due sono amici e collaboratori), che vede il grande ritorno sullo schermo di Charlie Sheen, sei anni dopo Scary Movie 3. Poi c’è stata la televisione, Due uomini e mezzo, gli scandali, la droga e le prostitute, la caduta, la risalita, di nuovo la tv, e infine il grande ritorno sullo schermo con un ruolo che sembra fatto apposta per lui.

Charlie Swan III (Sheen, per l’appunto) è un eccentrico designer di successo che sembra avere una vita perfetta: soldi, fama, feste, vizi. Quando però la fidanzata Ivana lo lascia, Charlie è costretto a fare i conti con se stesso e la sua solitudine. Nel riconsiderare l’amore morto potrà contare sul supporto della sorella Isabelle (Patricia Arquette, anche lei di ritorno al cinema dopo anni di televisione con Medium) e degli amici Kirby Star (Jason Schwartzman) e Saul (Bill Murray). Con il tempo, Swan capirà quanto la storia con Ivana lo avesse portato a trascurare il proprio lavoro e le persone amate e proverà a recuperare prima che sia troppo tardi. 

Ci sono molti elementi di pregio nel film di Coppola. I più importanti sono sicuramente le sbirciate nella mente di Charlie cui il titolo fa riferimento. Perché Swan ha una fantasia vivida che lascia viaggiare rapidamente e che lo porta a immaginarsi costretto a combattere un gruppo di feroci squaw capitanate da Ivana (fantastico Murray conciato alla John Wayne), o a fuggire dall’organizzazione segreta SSBB (Secret Society of Ball Busters). Una fantasia di tipo infantile, quasi da cartone animato, che spiega tratti fondamentali della personalità di Charlie. Egoista, immaturo, dissoluto, questo è Charlie Swan. Sheen ci mette molto del suo, si trova a suo agio nel ruolo di un uomo carico di fascino e debolezze, bisognoso di attenzioni ma incapace di darne. È un ruolo che vale come riscatto per tutto ciò che è accaduto all’attore, o meglio che si è fatto accadere, negli ultimi anni. Perennemente schermato da occhiali da sole, Sheen si mantiene sulla superficie di Swan, sull’esteriore, fino al confronto con Ivana che precede il finale in cui scava in profondità e tira fuori tutto quello che Swan aveva bisogno di comunicare («Non mi mancherai tu, mi mancherà amarti»).

 


Nonostante la luce dei riflettori sia tutta per Swan/Sheen, gli altri interpreti forniscono una prova di alto livello, in particolare i sempre solidi Schwartzman e Murray. Originali i titoli di coda degli attori principali. Sicuramente un’ottima sorpresa nel panorama asfittico di questo Festival di Roma.

Rimane sul tema delle conseguenze del perduto amore anche Un enfant de toi del regista francese Jacques Doillon, grande scopritore di talenti femminili come Juliette Binoche e Charlotte Gainsbourg.

Aya e Louis si sono tanto amati. Hanno condiviso una vita, hanno messo al mondo una figlia. Poi il sentimento si è spento, si sono allontanati, ognuno si è rifatto una vita con nuove persone e hanno smesso di parlarsi se non davanti alla loro bambina di sette anni, Lina. Quando Aya decide di avere un figlio con il suo nuovo fidanzato Victor, sente la necessità di vedere Louis e di parlare con lui come non faceva da tanto tempo. Da questo primo avvicinamento i due rinizieranno a frequentarsi in un modo sempre meno platonico, con i due nuovi amori che dapprima accettano il loro bisogno, poi iniziano a sentirsi minacciati e decidono di difendersi. Nel frattempo, la piccola Lina osserva tutto e cerca di capire cosa stiano combinando i suoi genitori. È la bambina la forza di un film troppo lungo, noioso e verboso per essere una commedia. Sono le sue incursioni, lo spensierato caos dell’infanzia (bravissima nella sua naturalezza la piccola Olga Milshtein) che porta all’interno della struttura narrativa a far respirare lo spettatore.
 


Strutturato esclusivamente come una serie di dialoghi a due tra i vari personaggi (Aya e Louis, Aya e Victor, e così via), senza scene corali, momenti non tanto di azione, ma almeno di movimento, con la camera a spalla che segue da vicino i personaggi nei loro incontri e una regia che si limita a una serie di brevi piani sequenza e montaggi alternati, Un enfant de toi risulta pesante senza necessità. Anche trovando apprezzabile l’indagine che il film vuole condurre su una storia in grado di resistere al tempo e a successivi sentimenti come quello di Aya e Louis, il ripetersi incessante di dialoghi sull’amore e il lento evolversi della relazione tra i genitori di Lina, che conduce a una conclusione evidente sin dalla prima scena, annoia in fretta. Quando la trama si riprende, nel finale al mare con la fuga di madre e figlia e l’inseguimento dei suoi due uomini che finalmente porta un po’ di verve e di situazioni divertenti (i due uomini ubriachi a letto insieme), è ormai troppo tardi. È probabile che con un minutaggio inferiore Un enfant de toi avrebbe colpito molto di più. Peccato. Così sono solo tante chiacchiere a vuoto.

Nel frattempo, in Prospettive Italia, torna Pippo Mezzapesa, dopo la buona accoglienza riservata l’anno scorso al suo Il paese delle spose infelici, con un documentario che riprende la storia di Pinuccio Lovero, il becchino per vocazione di Bitonto che già era stato protagonista di Sogno di una morta di mezza estate, presentato dal regista a Venezia nel 2007. È Pinuccio Lovero – Yes I can.

A cinque anni di distanza dall’uscita del film, Lovero ha conosciuto una notorietà relativa fatta di interviste e passaggi televisivi, culminata nella partecipazione al programma Il senso della vita di Paolo Bonolis. Poi le porte del mondo dello spettacolo si sono chiuse e Pinuccio è tornato a fare il becchino a Bitonto, con il ricordo di una gloria che poteva essere più grande. Ma le luci della ribalta gli mancano, è convinto di avere quel che è necessario per diventare famoso, di essere un “personaggio”. Per tornare a guadagnarsi la ribalta decide di candidarsi alle amministrative del comune di Bitonto, incarico consigliere comunale, lista Sinistra e Libertà. Con un programma da lui stesso definito “cimiteriale”, improntato esclusivamente sulla riqualificazione del campo santo di Bitonto, Pinuccio avvia la sua campagna elettorale battendo inesauribile la città alla guida del suo carro funebre trasformato in auto di propaganda, con slogan, anzi, «logan» come li chiamano Pinuccio e i suoi collaboratori in un italiano incerto, tra il macabro e il grottesco – «Pensa al tuo domani»; «Perché tu possa riposare in pace» – che campeggiano sulla fotografia a mezzobusto di Lovero in tenuta da becchino, anzi, «operatore tecnico cimiteriale» come lui vuole essere definito.

Se fossimo in un film si penserebbe al parto di un qualche geniale sceneggiatore, invece Mezzapesa si limita a riprendere la realtà di una campagna elettorale dove Pinuccio non è certo il più folle dei candidati. Il ritratto dalla politica dal basso che il documentario mette in scena offre uno spaccato sia politico che socio-antropologico, di quella che è l’Italia in certe periferie. Come il protagonista di Reality di Garrone, il sogno di Lovero è quello della celebrità televisiva, dell’apparire sullo schermo per essere riconosciuto e appagato. Quest’urgenza di visibilità non si collega a nessun talento particolare ma al consenso e alla celebrità che il becchino ha all’interno della propria famiglia, del proprio gruppo di amici. Questo è ciò che basta per Pinuccio per divenire qualcuno. Poco importa se ha solo la terza media («Ci sta gente più ignorante di me che ci governa!»), poco importa come ci si arrivi alla celebrità, se attraverso la politica, il Grande Fratello o L’Isola dei Famosi. Buffo cameo di Nichi Vendola che commenta con Lovero i risultati delle elezioni.

Nella sezione fuori concorso si segnala il ritorno di Marjane Satrapi, già autrice del celebrato cartoon Persepolis, con La Bande de Jotas, bislacca commedia nera on the road che non ha suscitato particolari consensi in proiezione stampa. All’arrivo in albergo nel sud della Spagna, una misteriosa donna si accorge che la sua valigia è stata scambiata all’aeroporto. Contatta il proprietario Didier che le riporta il suo bagaglio con l’amico Nils. I due sono in Spagna per un torneo di badminton. Dopo un pranzo insieme, i tre si trovano coinvolti in un’incredibile inseguimento a una banda di mafiosi, tutti con il nome che inizia per “j”, jota in spagnolo, che aveva assassinato la sorella della donna. Una storia sgangherata e debole, tra omaggi al western di Leone e momenti pulp, tirata per le lunghe nella parte centrale, affrettata nella conclusione. A tratti fa ridere, ma poco di più. Divertente il cast composto quasi interamente dalla squadra tecnica (con Satrapi nel ruolo della protagonista).

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