Via Aspromonte 100

di / 4 dicembre 2012

Sono in coda. È tutto fermo. Come sempre quando passo di qua ho una leggera aritmia. Non corro mai per strada, eppure qui scivolo via senza mai distrarmi, non voglio guardare il suo lato. Voglio solo andarmene e subito. Invece ora sono obbligata. Sono in fila. Una luce lampeggiante fa capolino qualche macchina avanti alla mia. Prendo respiro e mi faccio coraggio. Guardo a destra. Il carcere è lì, fisso a puntare su di me, sulla mia vigliaccheria.

Non ho mai contato le spine di una rosa, non mi sono mai chiesta se fossero dispari o pari, se crescessero insieme o lontane tra loro. Se il fatto che siano leggermente ricurve come una piccola mezza falce di luna, come una minuscola onda che si getta alla vita, siano determinanti per il loro difendersi. Proprio come una mendicante che si piega in due per non mostrare il volto a chi un giorno l’ha calpestata o semplicemente ignorata. Ecco, non so neanche perché mi sia venuta in mente. Io ne ho sempre avuto paura; paura delle rose e di quei mendicanti. Ho sempre schivato i loro sguardi così carichi di pacatezza, di consapevolezza universale. Li percepivo ovunque, quando uscivo dal cinema, ed era troppo tardi per trovarmi da sola; quando mi alzavo presto per prendere il bus della scuola e sentivo il territorio tracciato dal puzzo di urine che andava a fondersi con l’odore ripugnante dell’asfalto; quando correvo senza fiato e i loro occhi per un istante cercavano i miei, completamente sbandati, come a volermi indicare la strada, la sopravvivenza. Loro si muovono e nessuno ne sente il passo, nessuno sente lo scricchiolio dei loro pensieri, nessuno gli suggerisce la direzione e tanti hanno una rosa con sé.
Un giorno ho chiesto: Che cosa è la libertà? Mi hanno risposto: La libertà è un’emancipazione inventata, è un concetto che non sussiste perché diventa reclusione nel momento in cui ne attribuiamo il significato. Soffochi se ti fermi e cerchi di contenerla, di trovarne il limite. È in quel momento che diviene trappola, ghigliottina, cappio. Pensai: quanta sciocchezza e quanta ingenuità.
E ora quanti pensieri inutili, interrotti a ogni punto, virgola ed esclamazione, così da non permettere all’emozione di pensare a te. Non c’è storia, mi arrendo.
Ricordo.
Avevi sempre una sciarpa azzurra o verde. Una di quelle di seta indiana che facevano tanto tendenza. Una testa riccia e un sorriso fiero: Marianna, ti chiamo così perché il tuo vero nome, oggi, evocherebbe solo dolore. Tu, seconda di tre figli, di una famiglia amante del quieto vivere. Avevi sei anni più di me allora e se ci penso li hai anche adesso. Ma all’epoca erano così tanti.
Oggi invece potrei guardarti negli occhi e non avere paura.
Tu, giovane, bella, colorata, con una bicicletta bianca e un maglione sformato, io, una ragazzina innamorata di tuo fratello e dei tuoi modi, del tuo essere così preziosamente donna senza mostrarsi.
A volte, casualmente, mi concedevi qualche momento, senza neanche accorgertene.
Senza chiederti nulla raccontavi cose che non conoscevo, ma dal suono tanto affascinante.
Parole che uscivano con equilibrio e nobiltà, che non avrebbero mai tuonato il loro effetto devastante. Non c’erano né spine, né rose, solo grandi giardini, pieni di profumo e di libertà. Nessun mendicante.
Eppure era inverno. E Parlavi di biscotti al forno, di studio e uscite serali, sorridevi e filavi via dai tuoi amici. Eh sì, sempre così dicevi: «Devo andare, ho amici che aspettano».
E io pensavo: anche io avrò amici da grande e loro saranno con me, e io sarò come lei: dritta, fiera, limpida.
Ora guardo questo muro, alto e invalicabile, che non cambierà mai la sua identità, che trasuda di sconfitte nude, di soffitti scrostati che ricordano le ceneri di corpi insufficienti.
Qualche anno fa lessi su un giornale una tua frase: La giustizia borghese non è legittimata a giudicare i rivoluzionari!
La lessi come la bicicletta bianca alla sua ultima corsa. Una bicicletta che fino a ieri avevo visto passare sotto casa, e che mai avrei potuto immaginare che qualcuno potesse cancellare.
E invece accadde.
Capii così che non saresti tornata.
Chissà, se mentre ribadivi quanto fosse divertente fare una passeggiata sotto la pioggia con le ruote della bici ad affondare nelle pozzanghere, cercavi di spiegare cosa fosse la coscienza, la libertà, la resurrezione. Cosa fossero quelle isole che non si trovano sui libri ma che qualcuno stava costruendo per noi.
Forse non era così, forse era davvero solo un gioco da ragazzi, bagnarsi e tornare a casa sapendo di aver sfidato il tempo.
Volevo cercare anche io la libertà, quella che si trova sui libri di scuola, sulle pagine di ogni Costituzione, sulle réclame dai colori riservati, sulle canzoni ascoltate alla radio, sui versi dei poeti o sui tatuaggi dei marinai. Volevo capire perché per ostentare in serenità la loro bellezza, le rose dovessero aver bisogno di spine, perché i barboni non avessero paura di uomini e bambini e camminassero per strada urtando ogni cosa, crudeli nella loro certezza, nel loro essere assoluti, ma non ho mai pensato che desiderandola, la libertà, come un amante brutale, l’avrei perduta, per questo forse mi sono fermata alla sua smania.

La fila si è sciolta e la luce blu era un’ambulanza.
Magari un giorno ti scriverò, quando riuscirò a passare su questa strada senza sentirmi inadeguata, senza pensare che le coscienze sono parenti dell’indifferenza e della paura. Magari un giorno anche tu ricorderai chi sono e chi non ero, in un dicembre di tanti anni fa. E forse un giorno capirò, incontrandoti, perché una banda armata ha scelto di rappresentare le mie fantasie, i miei sogni, sbagliando gli strumenti, vagabondando le parole, o forse no, semplicemente sarò lì ad attendere che tu esca per poi scoprire insieme, che quello che tu forse potevi vedere ma non potevi raccontarmi ritorna oggi, senza compromessi, come un risultato inutile e confuso.


A Marianna*, brigatista rossa, mai pentita, rinchiusa nel carcere di massima sicurezza di Via Aspromonte a Latina

 

Questo racconto si è classificato terzo al concorso Memoracconti – Storie da ricordare, organizzato da Edizioni Memori, in collaborazione con Flanerí.

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