“Non sta al porco dire che l’ovile è sporco” di Florent Couao-Zotti

di / 15 gennaio 2013

Uno stile asciutto, e al contempo estremamente colorito, contraddistingue questo giallo tutto africano che ruota attorno alle divinità di oggi: il sesso, la droga, i soldi. Couao-Zotti, scrittore di racconti, ma anche di opere teatrali e fumetti, ci presenta un universo per molti aspetti non così nuovo, seppur ambientato in uno scenario per noi occidentali pressoché sconosciuto: l’Africa. Non sta al porco dire che l’ovile è sporco (66thand2nd, 2012) si svolge infatti a Cotonou, capitale del Benin; se non fosse per i titoli dei capitoli, ognuno dei quali richiama, proprio come il titolo del romanzo stesso, un particolarissimo proverbio locale, nulla ci vieterebbe di ambientare le immagini mentali che via via creiamo durante la nostra lettura in una città europea, americana forse, dove la malavita la fa da padrona e dove la prostituzione è un crimine e un’arma. Più di una volta i meno attenti di noi si figureranno infatti dei gangster italo-americani, dai capelli lucidi e i baffetti curati mentre sparano alla testa dei propri nemici o dei collaboratori che, ahi loro, non servono proprio più. Forse è proprio questo il grande pregio del libro: ci porta avanti e indietro con la mente da e verso luoghi che si intrecciano nelle nostre teste con la nostra visione del mondo, che li altera e ci aiuta ad assimilarli, e che viene richiamata al presente da qualche termine in corsivo, dei più improbabili per i profani della cultura africana; ci obbliga a sfogliare il libro, a cercarle nel glossario, a renderci conto ancora una volta che siamo in Africa.

La storia è semplice: c’è della droga, c’è un boss violento che la vuole, c’è una prostituta, c’è una sua collega e compare, a tratti nemica, c’è un’ex reginetta di bellezza caduta in disgrazia e portata quasi di peso all’interno del mondo della malavita e c’è, infine, la polizia. Il boss vuole la droga, la prostituta vuole la droga, la sua collega anche. Tutti vogliono poi i soldi. Cosa c’entra la reginetta? Be’, lei muore, nemmeno troppo bene a dirla tutta, scatenando le ricerche della polizia, che non chiede di meglio che un nuovo pretesto per dare la caccia al boss, detto l’Arabo (ebbene sì, lui è arabo, non è africano, lui è il diverso della storia), nonché scatenando l’ira delle due prostitute che la conoscevano e sapevano della droga. Senza entrare oltre nei dettagli della trama – si tratta pur sempre di un thriller – si può dire che l’intreccio fila, si fa leggere, ci tiene incollati alle pagine e ci regala un po’ di suspense; cosa più importante, però, ci porta a una riflessione interessante: nessuno dei personaggi al suo interno può essere identificato come “buono” o “cattivo” della storia, quelle macrocategorie che ci rassicurano ma che non sempre si possono applicare, creando situazioni quantomeno spiazzanti. La polizia è un nido di serpi, affossata dalla corruzione e afflitta dall’invidia, è sicuramente l’ultima spiaggia tanto dei criminali quanto degli onesti; le prostitute non sono sempre e solo vittime, sono delle macchine da soldi, delle manipolatrici pronte a distruggersi le une con le altre pur di ottenere ciò che vogliono; lo stesso Arabo, che ci sembrerebbe un cattivo per eccellenza, misogino, stupratore, assassino e spacciatore, a un tratto si mostra per quello che è, il frutto di una vita grama, distrutta dalla povertà. Nessun personaggio è incasellabile, nessuno può essere definito in un modo univoco, bidimensionale.

Arrivati alle ultime pagine, scoperto il destino dei protagonisti e il doppio volto della legge, e visto il popolino che si vuol far giustizia da sé, ci rendiamo conto che Florent Couao-Zotti ha fatto ben di più che scrivere un giallo: non ci si presenta come una copia degli autori di gialli o thriller da best-seller, lui prende il suo paese, ce lo mette davanti, e lo analizza con la cura di un anatomopatologo. Lo sviscera, ci fa vedere che cosa c’è sotto la superficie, ci mostra che in Benin non ci sono tanti vincitori, ma tanti sconfitti, che a quanto pare non esiste un punto di riferimento cui appellarsi, ma la necessità di tirare avanti, ricorrendo alle peggiori efferatezze, se necessario. Ci mostra anche delle donne utilizzate come oggetti, ma che sono in realtà degli oggetti acuminati, che sanno ferire, tagliare, che vanno utilizzati con la dovuta cautela prima di finire riversi in una pozza di sangue senza nemmeno accorgersene: un simbolo di riscossa, non del tutto riuscita ma piuttosto d’effetto.

Tutto a un tratto, la nostra mente, che traspone i vari eventi in un’Europa moderna o in un’America ferita dal traffico della droga o delle donne, viene sopraffatta da un pensiero: se riusciamo a immaginare tutto questo alla perfezione in un ambito occidentale, se pensiamo a prostitute bianche, dai vestiti corti e dalle forme seducenti e a un boss della mala non così distante da un Padrino da cliché, non è forse possibile che Couao-Zotti stia descrivendo un mondo che supera i confini del Benin e dell’Africa intera? Forse se ci sforziamo di grattare la superficie di questo romanzo, all’apparenza semplice, una lettura da tempo libero, possiamo avere di più, probabilmente rischiando anche di farci un po’ male.

(Florent Couao-Zotti, Non sta al porco dire che l’ovile è sporco, trad. di Claudia Ortenzi, 66thand2nd, 2012, pp. 176, euro 15,00)

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