“L’uomo che amava Dickens” di Evelyn Waugh

di / 17 gennaio 2013

Scrittore non tra i più frequentati dalle nostre parti, Evelyn Waugh (Londra, 1903-1966) con L’uomo che amava Dickens, raccolta di racconti tradotti da Mario Fortunato per Bompiani, consente un’occasione per avvicinarlo. Ché in un libro di racconti, specie se diversi fra loro, un lettore potrebbe trovare quello che fa al caso suo. Artefice di una scrittura che ha i suoi punti di forza nella secchezza magistrale dei dialoghi, nell’ironia e in una certa musica delle parole, Waugh utilizza spesso materiale spurio della sua biografia. Tracce di mondo appaiono come riflesso dei suoi viaggi, dall’Europa alla Guyana. Anche una disavventura come conferenziere non adeguatamente rimborsato gli dà l’abbrivo per una storia, la prima e più lunga del volume, “Benvenuti nell’Europa moderna”, satira inesorabile del regime comunista – di ferocissima allegria e sicuro godimento del lettore. Nel protagonista, il triste professor Scott-King, Waugh disegna già tutta l’avvilente e patetica biografia del povero cultore di umane lettere; un uomo («quasi un poeta») che «aveva viaggiato in lungo e in largo nella vasta periferia della sua mente» ma naturalmente a digiuno di qualsiasi cosa, la cui sola passione è un’esistenza simile alla sua, quella di un tal Bellorius che molto tempo prima aveva dedicato un poema a Neutralia, fantasmatica isola del nuovo mondo. Quando i suoi dirigenti decidono di celebrare il terzo centenario del poeta e invitano il professore nell’isola, l’uomo, per quanto incredulo, non sa quanto farsesco sarà il viaggio che lo aspetta.

L’autore de Il caro estinto e Ritorno a Brideshead, per citare due dei romanzi più noti (e ricordare che alcuni dei personaggi presenti in questa raccolta sono destinati a traslocare nei romanzi), conosce le sfumature che passano dall’ironia al sarcasmo, alla compassione (giusto il titolo di un racconto) ma il suo timbro british ècosì dissonante rispetto all’emotività italiana (un’emotività direi ideologica) – pure a suo tempo culla di un ethos, la sprezzatura, irrimediabilmente compromesso dall’uggia di una pruderie cattolica onnipervasiva che invece allo scrittore inglese non ha mai impedito di scrivere con sfrontata verve satirica –, da mantenerlo in una posizione abbastanza laterale, né la sua ricezione è stata favorita dall’aver assunto l’uomo posizioni assai poco commendevoli (filo fascista e reazionario, sconsideratamente vicino a pregiudizi razzisti e antisemiti).

Lo scrittore invece merita di essere letto per quello che è. Waugh sa modulare i suoi accordi da un sentimento all’altro com’è di chi vede nel tragicomico l’impronta della vita umana. Ma mai come in questi casi ciò che deve riuscire convincente è il tono. I personaggi – anche se sottoposti a un umorismo crudele – devono restare vivi, autonomi, e non finire come meri accidenti nominalistici, pedine mandate in giro dall’autore tanto per smuovere una trama. Quando si dice che di un autore riconosciamo la voce, be’, non è detto che sia sempre un bene. Potrebbe voler dire che ci consoliamo con lo stesso, amichevole birignao: che i suoi non sono personaggi, ma macchiette. Con Waugh non succede. La differenza con i cattivi imitatori che non hanno niente da dire è tutta qui.


(Evelyn Waugh, L’uomo che amava Dickens, trad. di Mario Fortunato, Bompiani, 2012, pp.263, euro17)

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