“Limonov” di Emmanuel Carrère

di / 21 febbraio 2013

Si potrebbe dire che il compito era facile. Spulciare tra grumi d’incontri eccellenti e pescare i più interessanti, potendo vantare un’esistenza tutt’altro che consueta. Da figlio di un’accademica sovietologa in viaggio continuo, spesso situata intorno a tavoli in cui i commensali erano ben più golosi delle pietanze servite. E che ben presto iniziò a portarlo con sé. Certo, Emmanuel Carrère è partito avvantaggiato. Di materiale ne abbonda parecchio in mezzo ai suoi giorni. Ma lui in questo caso ha scelto di imbattersi in un personaggio solo, eppure sempre in compagnia: ingombrante, sfaccettato, addobbato di ogni veste possibile, di un’etichetta precisa e del suo esatto contrario.

Nasce come Eduard Savenko il 2 febbraio del ’43, ma nessuno lo ricorderà così. Per tutti è solo Limonov (Adelphi, 2012), pungente come il frutto, agrumato e devastante come una granata. La trama è già pronta, snocciolata nel susseguirsi degli anni. Basta raccoglierla. E Carrère l’ha fatto. La sua strada s’interseca con quella di Eduard in occasione dei funerali di Anna Politkovskaja, la voce molesta del regime di Putin, stroncata davanti alla porta di casa, eliminata così, come una scheggia nel piede. Per il lancio di una rivista di attualità serve un numero forte, un pezzo incisivo. E il soggetto selezionato da Carrère sembra il migliore possibile. Un mastodontico punto interrogativo. «Una vita romanzesca, pericolosa, una vita che ha accettato il rischio di calarsi nella Storia.»

Un coacervo di curve a gomito, spigoli e contraddizioni. Bisogna intervistarlo e poi compattare i frammenti. Ci vorranno più tappe e quattro anni per completare l’opera. Per farle assumere la forma che oggi leggiamo. Che tanti hanno amato, premiato e commentato. E allora forse, il risultato non è sottinteso. Perché fare il biografo non vuol dire soltanto raggruppare date, eventi, confidenze. O inventarsi un ordine per dipanare i fatti. Non è solo un bieco dilemma tra sincronico e diacronico. Evitare l’agiografia così come il rotocalco. E qua e là guarnire con dettagli succulenti, perché un po’ di prurito, o di verità accaldata, potrebbero giovare alla causa. Fare il biografo vuol dire assumersi il peso di ciò che si racconta, a tratti scomparendo, perché siano i fatti a pronunciarsi, a scrivere se stessi. E poi conferendo all’insieme la forza di un romanzo, senza scassinarne l’autenticità. Vuol dire farci conoscere Limonov per come l’autore stesso si è accostato a lui, disegnarci degli ingressi in cui permetterci di entrare. A volte sarà quello principale, altre ancora sarà quello minore sul retro, ma tutti sono dei punti d’osservazione strategici, il cancello in ferro battuto come lo spioncino sull’angolo buio. E noi siamo con Eduard. Quando ancora bambino adora pulire gli stivali di suo padre che fa il militare, affondandoci dentro con tutto il braccio. Quando la povertà costringe la sua famiglia a spostarsi di continuo, lungo il Volga e poi a Char’kov, in Ucraina. Quando cambiare quartiere significa marcire tra gente malfamata, che Eduard comincia a frequentare perché non ci sono alternative. Quando bere diventa un’esigenza, un rito allungato per una settimana, un respiro etilico con cui battere il freddo e poi la noia. Quando assistere a uno stupro sembra quasi normale, quando in ogni confronto vince solo chi è pronto a uccidere. Quando, per chi cresce ai margini, la galera nobilita e trasforma in eroi.

E non resta che inalare le sue stranezze, cavalcare i saliscendi del suo ego ipertrofico, gli incessanti cambi di scena, gli incontri che lo avvicinano senza soluzione di continuità al crimine, alla poesia, ai salotti borghesi, alla guerra nei Balcani, al carcere e alla protesta civile. È il suo carisma a fare la differenza, a circondarlo di un’aura indiscussa di fascino e rispetto. È la sua personalità a dettare le regole, nel bene e nel male che spesso si assomigliano. A stabilire che tutto può essere ammesso nelle pieghe della sua vita, tranne l’anonimato. Perché Limonov non può sopportare di essere oscurato. Le retrovie non lo riguardano, non possono ospitare neanche uno starnuto. La sua residenza è in prima linea. Sempre, a prescindere. Indossando gli eccessi, capitanando un gruppo di nazbol, tentando più volte il suicidio, per amore, per disincanto o per bisogno di attenzione.  Rifiutando con sdegno i panni dell’uomo ordinario, di ciò che era suo padre e che non si addice affatto alla sua fame insonne.

Ma il libro è anche molto più di questo. Ci offre uno specchio attraverso il suo volto. Con il ritmo possente di un reportage, tramite le crepe del suo protagonista, ci consente di analizzare anche il rapporto degli intellettuali e della gente comune con la cultura del proprio Paese, e in particolare con la cultura di un Paese come la Russia, grande e denso come un continente. Possiamo spiare i contrasti, le evoluzioni dei suoi sogni e dei suoi mostri, che spesso scivolano gli uni negli altri. Possiamo capire o intravedere cosa è significato il comunismo per i suoi discepoli e per i suoi detrattori. Per tutti quello che temendolo o amandolo si sono comunque nutriti del suo latte.

Quello che resta è il senso di un viaggio, dentro il fiato di una vertigine, dentro universi apparentemente inconciliabili e che trovano casa in un singolo cuore.


(Emmanuel Carrère, Limonov, trad. di Francesco Bergamasco, Adelphi, 2012, pp. 356, euro 19)

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