La vampa

di / 30 marzo 2013

Stride la vampa…
Cammarano, Il Trovatore


Come quasi tutti, al battesimo il bambino pianse. Al momento in cui l’acqua benedetta gli cadde sul capo, uno strillo gli squarciò la bocca tonda e rossa: e di nuovo, e di nuovo, colmo di un dolore sproporzionato, indecente quasi, dentro la solennità vuota della chiesa.
La donna che lo aveva in braccio si mise subito a calmarlo, impaziente di restituire allo spazio sacro il silenzio non spezzato che dalla liturgia: quasi che, con quel suo pianto, il bambino attirasse troppo su di sé l’attenzione. Su di sé, e la sua qualità di bastardo.
Lo ninnava, da destra a sinistra, con forza, e di nuovo a sinistra, quasi per testimoniare l’impegno profuso, con poco successo.
E ninnandolo, si provò a cantargli qualcosa, a bassissima voce, da farsi sentire solo dal bambino, al contrario di quanto le toccava fare di solito. Perché, sì, che la voce arrivasse a sentirsi bene su, fino al loggione, saliva di persona a verificarlo l’impresario, a metà della prova: e di là si sporgeva, a gridarle:
«Se senti nagòtt, de quasëura!»
Era una cantante, la donna. Minuta, bruna, il viso gentile ma forte e spaziato dai lineamenti, colmi gli occhi scintillanti d’ombra. Il suo nome era un po’ virile, Giuseppa. Il cognome, anch’esso pesante di sonorità contadine – Strepponi –, le era stato volto in vezzeggiativo da un pubblico che voleva in scena per solito donne d’altra stazza, e vestite, magari, da maschio non per obbedire a qualche libretto di una inverosimiglianza abissale: perché i pantaloni aderissero sopra pienezze certo non maschili.
Al vestito dei maschi, peraltro, Giuseppa ci badava già quando il suo nome era ancora quello delle storpiature infantili – Peppa, Beppinèll – con cui si sfiziava suo padre, seduto tenendosela su un ginocchio mosso a cavalluccio, e spremendo a forza di solletico il riso squillante da lei; dalla madre, invece, quelle sdolcinature ottenevano una disapprovazione severa e senza parole, col broncio che le s’impuntava sul viso ad ognuna delle cento incombenze a cui c’era da far fronte nel tirare su tutti quei bambini.
Quella, per esempio, di insegnare a ognuno ad abbottonarsi, e badare a far rimanere sempre sottanine e gonne e grembiuli giù, giù, fino ai piedi, quando ci si alzava, le bambine. I fratelli, invece, Giuseppa aveva notato, avevano solo da tirarsi su, beati loro!, le braghe, e magari chiudersi bene sul davanti, ma niente sottane, grembiuli, gonne, sottogonne, mutande alla caviglia, a fare da impaccio quando si correva, o veniva da arrampicarsi, o da liberarsi vescica e ventre.
Altre discriminazioni, naturalmente, tra femmine e maschi, le vennero inculcate poi, via via che cresceva, dribblando a colpi di fortuna morbilli, rosolie e l’eterna tonsillite che le devastava di spine brucianti la gola e gli orecchi a ogni nuovo inverno; sua madre fu, che s’incaricò di fargliele entrare in testa ben bene: quasi con la livorosa attenzione con cui si occupava dei panni del bucato da distribuire, ben bene, sotto la liscivia, e la cenere, e versarvi sopra l’acqua, ammodo, nel gran calderone tenuto con il fuoco vivo sotto, per delle ore, a bollire.
E, a ognuna delle sue rimostranze, delle sue richieste, fra offesa e incredulità, del perché fosse legge, una cosa così manifestamente ingiustificata, e stupida, sempre le veniva risposto, da sua madre, e sempre a quel modo come incarognito d’impotenza: tutto risaliva a quell’unica motivazione, del dover fare figli, e che fossero tutti genuini, al marito con cui una è stata sposata; tutto quell’affollato decalogo di proibizioni, e di cose che una donna non fa, non può fare: orinare in strada, a una cantonata, imparare a leggere, dire la messa all’altare, in quel bel latino sonante, o anche solo, avanti a un notaio, mettere la firma su una compravendita, una fideiussione, un qualche atto con cui disponesse a suo piacimento di una eredità, di una parte dei parafernali o un qualunque altro bene dotale.
E poi, l’ultima cosa che a una ragazzina comunque era preclusa: la sola speranza che restava, a un figlio di povera gente, di fare denaro, a palate, mandando per giunta folle intere in visibilio, se avevi la fortuna di non rimanerci dissanguato e l’operazione riusciva o non ti ammazzava poi la setticemia: quella che si chiamava pudicamente “incisione”, e ti rimaneva la voce da ragazzino, e anche il nome con cui ti acclamavano era sempre un diminutivo, da angelo, per quanto venissi su lungo lungo, con un torace spropositato, sopra due gambe fine fine e tutt’ossa.
Ma fortunatamente, Giuseppa non ebbe bisogno di altro che di farsi pienamente donna, benché in quella gracilità di giunture che inteneriva, e sfoggiare la sua luminosa e calda purezza di timbro: suo padre se ne accorse un giorno, sentendola che cantava, china sull’acquaio, aggredendo un pesce a cui strappar via le interiora, e le venne dietro, le chiese:
«Cos’è, che cantavi?»
Lei disse che era uno stornello. Una cosa lacrimosa sopra una ragazza, a cui il fidanzato lontano non torna più, anche se è tornato a fiorire il biancospino…
«Ricantala, su, fammi sentire!», le impose, a quel modo suo affettuoso insieme e tirannico di quando giocavano insieme.
Avere accettato, con la meraviglia svagata di chi fa una parte di cui non ha mai nemmeno letto il copione, e ripreso da cima a fondo lo stornello senza più badare a infilare le mani nella spaccatura rosea del pesce, fissando gli occhi in viso al padre, e arrossendo sempre più, deliziosamente, a ogni ritornello che le ripassava in gola, segnò la sua vita, per sempre.
Fino alla necessità di disfarsi, ora, di quel piccino che le si assopiva in seno, pian piano, con i pugni stretti ancora in su, se voleva che non le rimanesse macchiata indelebilmente, fra il pubblico – che, si sa, è fatto tutto, in Italia, di veri cristiani cattolici –, la reputazione: con quali riflessi, poi, sulle scritture, gli ingaggi persi per intere stagioni, ci voleva poco, a capirlo.
La necessità, in altre parole, che a portarglielo via, ora, su due piedi, fosse l’impresario stesso – il cui nome quasi comicamente pomposo, era stato appena imposto, con l’invocazione in latino al santo patrono che se ne prendesse lui cura dall’alto, al bambino –, prima che l’affetto materno l’avesse vinta; come, con una pira, la vampa.

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