Something in the way

di / 6 aprile 2013

Era ormai un mese che dopo scuola andavamo tutti a casa di Chad. Entravamo in cucina e la mamma ci urlava dal piano di sopra di prendere quello che volevamo dal frigo. Ci preparavamo dei panini o delle frittelle facendo un gran casino. Era importante che facessimo confusione. Mentre Darrin, Ace e io riempivano fette di pane con burro d’arachidi e marmellata, Chad si infilava al piano di sotto, nella taverna del padre. La porta che dava sulle scale cigolava fortissimo e dovevamo coprire il rumore urlando e sbattendo i piatti. Non succedeva mai che la madre venisse giù a vedere cosa stessimo facendo. Stava di sopra a cucire costumi per il laboratorio teatrale del liceo. Tutto il giorno. Però una volta, la prima volta che Chad si era infilato giù nella taverna, la mamma gli aveva chiesto perché fosse sceso di sotto. Il padre di Chad non voleva che noi ragazzi entrassimo nella sua taverna. Chad se l’era cavata dicendo che Darrin aveva aperto la porta per caso, per vedere cosa ci fosse giù, ma che lo aveva fermato prima che potesse scendere. La madre gli aveva creduto.
La verità è che Chad doveva scendere giù nella taverna del padre per prendere da bere. Di sotto era sempre pieno di birre e di superalcolici. Così, mentre noi stavamo di sopra a farci i panini, attenti a fare più rumore possibile, Chad scivolava di sotto e riempiva lo zaino di birre o di improbabili miscugli di bourbon, gin, vodka e altra roba preparati riempiendo bottiglie di plastica con un po’ di ogni liquore.
L’alcol non era per noi. Magari noi ci facevamo una birra, così, tanto per non sprecare l’occasione, ma tutto quello che riuscivamo a prendere lo portavamo da Trevor, un tizio poco più grande di noi sempre pieno d’erba che ci faceva fumare nei boschi dietro la scuola se gli portavamo qualcosa da bere. Trevor preferiva l’alcol alla marijuana. Diceva che le canne lo facevano sentire stupido mentre con l’alcol si sentiva felice.
Io mi ero fatto la prima canna poche settimane prima, dopo che Chad aveva insistito per provare, e mi era piaciuto un sacco. Avevo detto: «È una cosa che farò per il resto della mia vita!», e tutti si erano messi a ridere, anche Trevor, che era rimasto seduto con noi e si stava finendo la quarta birra. Ace mi aveva preso in giro: «Ma come, non volevi fare il musicista?» «Sì che voglio fare il musicista! Ma voglio anche fumare tutta l’erba che voglio!»
Io volevo davvero fare il musicista. Mia zia Mary mi aveva regalato per il mio compleanno una scassatissima chitarra elettrica e io avevo preso a suonarla tutti i giorni. Mia madre non mi sopportava più, ma io me ne fregavo. Avevo iniziato a scrivere le mie canzoni, ma non volevo che nessuno le ascoltasse, ancora.
C’era una sola persona che avrei voluto sentisse quello che cantavo, in verità, ma mi vergognavo troppo per dirglielo: Melanie, la sorella di Chad. Aveva diciotto anni e un seno grande che sembrava scoppiare sotto le magliettine che si metteva per venire a scuola. La vedevo tutti i giorni, in un angolo della sala mensa o sulle tribune del campo da basket. Stava sempre da sola, a disegnare. Ogni tanto mi sembrava che mi guardasse e io giravo la testa imbarazzato, fingendo di fare altro. Si diceva che avesse dei problemi, che fosse ritardata o mongoloide, ma secondo me era una cosa che aveva messo in giro qualcuno che la odiava. Era solo timida e silenziosa, come me.
Chad non ne parlava mai. Il pomeriggio in cui avevamo fumato per la prima volta a un certo punto gli avevo chiesto se era vero quello che si diceva in giro su Melanie. Eravamo fatti pesantemente e io sentivo come una mano fredda che mi schiacciava il cervello e non mi faceva pensare bene. Chad si stava grattando l’orecchio sinistro, diceva che gli formicolava, che gli prudeva da matti. Quando gli chiesi di sua sorella smise di toccarsi e mi guardò dritto negli occhi. «Che si dice in giro di Melanie?», mi chiese con un espressione che non gli avevo mai visto.
«Niente Chad, che si dice? Che è un  po’ strana, ecco». Ero in imbarazzo, i suoi occhi non mi si staccavano di dosso.
«Strana? In che senso strana? Perché non pensi piuttosto a farti i cazzi tuoi e a ficcarti quella chitarra di merda nel culo?» Poi era scattato in piedi e si era allontanato nel bosco.
Io, Ace e Darrin eravamo rimasti lì a guardare la doppia fila di binari davanti a noi, in silenzio, stupiti e terrorizzati dalla reazione di Chad. Trevor russava contro un albero.
Poi Chad tornò, dopo mezz’ora più o meno, e si mise semplicemente a preparare un altro spinello e a cazzeggiare come sempre. Non ne parlammo più.
Qualche mese dopo andai a casa di Chad alla fine delle lezioni. Non era venuto quel giorno e volevo sapere che fine avesse fatto. In verità avevo finito l’erba e avevo bisogno di qualche birra per andare da Trevor. Avevo iniziato a fumare anche da solo, sul tetto di casa uscendo dalla finestra della mia stanza, e le mie scorte duravano sempre meno. Continuava a piacermi, fumare erba, ma non mi dava più lo stesso effetto delle prime volte.
La porta della cucina della casa di Chad era sempre aperta, così entrai senza bussare.
Al tavolo della cucina trovai Melanie, con addosso solo le mutandine e una maglietta attillata, un piede tirato su e appoggiato allo sgabello su cui era seduta. Stava mangiando dei cereali, davanti a sé aveva il suo quaderno pieno di disegni.
Era la prima volta che ero con lei, da solo, in una stanza.
«Ciao, sono Kurt, cercavo Chad», era la prima volta che le parlavo. Fortunatamente, lo spinello che mi ero fumato a scuola mi faceva sembrare meno agitato di quanto fossi, o almeno me lo auguravo.
«Lo so chi sei, Kurt, ti conosco», disse mentre tirava giù il piede e si sistemava meglio sullo sgabello. Poggiò i gomiti sul bancone, sporse il busto in avanti e si appoggiò alle braccia. Il suo seno non mi era sembrato mai così enorme. Non mi levava gli occhi di dosso. «Tu sei quello che vuole fare il musicista, vero?»
Sentii le guance diventare bollenti. Non sapevo come rispondere, così mi limitai a chiederle di nuovo se Chad fosse in casa, balbettando come non avevo mai fatto.
«No, Chad non c’è, è fuori Aberdeen con la mamma. Sono andati dai nonni. Non c’è nessuno a casa, tranne me. E te…» Melanie continuava a muoversi sullo sgabello, ad accavallare le gambe nude, senza smettere di guardarmi.
«Senti, ti va di vedere i miei disegni?», mi chiese indicando il quaderno sul bancone. Io ero rigido e incapace di parlare. Volevo andare via ma allo stesso tempo volevo avvicinarmi a lei, stare con lei, toccarla. Senza rendermi conto iniziai a muovermi verso il bancone.
Lei allargò leggermente le gambe e mi si avvicinò indicando i disegni sui fogli a quadretti. La sua tetta sinistra toccava il mio gomito destro.
Avevo iniziato a sudare. Sentivo il suo profumo, fortissimo, che mi riempiva il naso. Le pagine del quaderno erano piene di tratti di penna confusi che tracciavano vortici e spirali, labirinti in cui si spalancavano occhi blu di biro.
Il suo seno continuava a spingere sul mio braccio. Non capivo più niente. Con un occhio guardavo i disegni, con l’altro le spiavo le gambe, finché senza rendermene, conto, mi avvicinai al suo orecchio e le dissi: «Non dirlo a Chad, ma mi piaci un casino». Lei sorrise e mi baciò sulle labbra. Io ormai avevo smesso di pensare. Sentivo il cuore martellarmi le tempie. La mano fredda della marijuana mi spingeva le meningi sul cervello. Ero zuppo di sudore.
A bassa voce mi chiese: «Vuoi scoparmi?», e io mi limitai a fare di sì con la testa, la gola piena di qualcosa simile a palle di carta.
Mi prese per mano e mi portò di sopra, in camera sua. Iniziò a spogliarsi, lasciando la porta aperta. Si stese sul letto, completamente nuda.
Io ero immobile, ancora in corridoio. Mi grattavo nervosamente le braccia. Melanie mi fece cenno di entrare. «L’hai mai fatto prima?» Feci segno di no. «E tu?» riuscii a chiederle con un filo di voce. «Io sì, un sacco di volte. Quando ero più piccola con un mio cugino abbiamo scopato tutta l’estate, in campeggio a Barlow Creek. Adesso lo faccio con un mucchio di gente. Vieni qui che ti faccio vedere». La sua voce era morbida come una carezza.
Mi stesi accanto a lei e iniziai a baciarla, a toccarla. Sembrava che le piacesse, così continuai. Lei me lo teneva in mano e me lo accarezzava. Senza volerlo le morsi forte il collo e le scappò un grido. «Mi lasci il segno così!», mi bisbigliò in un orecchio. Poi mi disse di montarle sopra. Io mi calai i jeans sotto il sedere e feci come diceva. Mi misi su di lei e mi guidò dentro.
Mentre mi sostenevo sulle braccia vidi il suo comodino, pieno di tubetti di medicine, di quelli arancioni, con il tappo bianco, e il suo nome scritto sopra. Su un’etichetta lessi la parola «Litio».
Cercavo di scoparla, ma la testa mi girava forte e non capivo niente. Sentivo freddo e sudavo. La maglietta mi si incollava al torace in una morsa gelida. Il bordo dei jeans mi segava le natiche. Chiusi gli occhi sperando che tutto passasse. Quando li riaprii la vidi sotto di me, e mi sembrò orribile e grassa. Sentivo una puzza insopportabile che mi levava il respiro. Era la sua vagina.
Mi staccai da lei disgustato e scappai via con i pantaloni ancora calati.
Una mattina della settimana dopo, la porta della mia classe si spalancò e il padre di Melanie entrò come un toro, il preside attaccato alla manica della sua camicia di flanella che cercava di fermarlo. Mi urlava contro che ero un bastardo, che mi ero approfittato della sua bambina, che l’avevo morsa a sangue, come una bestia feroce.
Nell’ufficio del preside, il padre mi disse che dovevo ringraziare Melanie se non mi denunciava, perché nonostante tutto era maggiorenne e poteva decidere lei cosa fare, così dicevano gli assistenti sociali.
Io non l’avevo più vista da quel giorno. Chad non era più tornato dalla visita dai nonni e noi avevamo trovato un altro modo per portare l’alcol a Trevor. Non avevo raccontato niente a nessuno.
Il preside mi disse che non poteva sospendermi, ma che dovevo riflettere seriamente su quello che era successo. In poco tempo, tutti quanti a scuola vennero a conoscenza di me e Melanie. Mentre uscivo per tornare a casa mi piovvero addosso insulti e lattine di coca. Mi chiamavano “Stupratore di ritardate”. Qualcuno, invece, mi batteva sulla spalla e mi sorrideva. Non mi ero mai sentito così ricoperto di ridicolo.
La sera attaccai la chitarra a tutto volume e iniziai a cantare e a urlare finché mia madre non entrò in camera e mi portò via l’amplificatore. La mandai a fare in culo.
La mattina dopo non andai a scuola. Rientrai in casa dopo che mia madre era andata a lavoro, presi mezza bottiglia di scotch dalla cucina, tutta l’erba che mi era rimasta e una scatola di Lexotan e andai nel bosco dietro scuola a finirmi tutto.
Odiavo me stesso e volevo morire.
Barcollando per l’alcol e le droghe mi sdraiai sui binari. Presi due grossi blocchi di cemento e me li sistemai sul petto e sulle ginocchia. Mi accesi l’ultimo spinello mentre aspettavo che un treno passasse. Fumavo a boccate lente e profonde, trattenendo il fumo nei polmoni e guardando le nuvole uscirmi dalla bocca e dal naso. Poi lo sentii arrivare.
Mi volsi alla mia destra e lo vidi lontano che si faceva strada tra gli alberi. Provai a chiudere gli occhi per aspettare la fine, ma non ci riuscivo. Mi voltavo a controllare quanto mancasse. Non avevo paura. Volevo solo che quel treno mi passasse sopra e mi riducesse in poltiglia.
Quando vidi che prendeva lo scambio e passava sui binari affianco mi sentii di merda.
Sfrecciò a pochi metri da me, travolgendomi solo con il suo rumore. Poi rimase il silenzio.
Steso sui binari, con il blocco di cemento sul petto e sulle ginocchia, mi misi a ridere come non facevo da un sacco.
Avevo voglia di suonare. Di tutto il resto non mi importava.

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