“L’isola delle lepri” di Anna Maria Falchi

di / 30 aprile 2013

«Laggiù, sull’Isola delle lepri, tra roccaforti di pietra e castelli immaginari abitati da fantasmi», esiste una Sardegna diversa da quella cui noi tutti siamo abituati a pensare, senza bikini, yacht e locali luccicanti: la selvaggia Cala d’Oliva all’Asinara, Sorradile, Cagliari, Soadras, raccontate, in questo romanzo d’esordio di Anna Maria Falchi, dalla fine degli anni Venti a oggi, attraverso le varie generazioni di una famiglia, quella dell’autrice, che si passa di volta in volta un terribile testimone.

Un luogo aspro, popolato da conchiglie, cangianti “occhi di Santa Lucia”, «cinghiali, asini, capre, maiali, cavalli, detenuti e prigionieri di guerra. […] un’isola in cui il tempo pareva sospeso, prigioniero del caldo e del silenzio durante l’estate, rassegnato al vento e al fragore delle onde del mare durante l’inverno». Un po’ le umili condizioni, un po’ l’isolamento rispetto a realtà più civilizzate, un po’ la scarsa istruzione e la mancanza di mezzi, e un po’ il difficile periodo storico del «signor Duce», sono tutti ingredienti-cause dei crudi fatti narrati.

Antonello è il primo: Aldo «lo afferrava tra le braccia, e simulando un combattimento corpo a corpo, come facevano gli antichi gladiatori di cui tanto gli aveva parlato, gli accarezzava la testa, la schiena, le gambe, il sesso». Francesco è il secondo: «Sognava di volare, […] via da quel paese silenzioso, capace di nascondere rancori antichi e vendette atroci. […] Immaginava di planare in quell’enorme specchio d’acqua, di prendere Mariuccia e portarla via, così com’era, nuda, bagnata e innamorata». Ma una notte… quattro colpi di fucile hanno reso la sua pelle «bianca come una nuvola estiva». Poi viene il turno di colei che narra: «Con gli ortaggi coltivati nel cortile preparavo manicaretti per le bambole, con l’acqua mescolata alla terra facevo il caffè per le mie ospiti immaginarie», e un giorno Mario era lì, «appoggiato al muretto del pollaio che mi fissava, cupo, ma con uno sguardo diverso dal solito […] Aveva una mano infilata nei pantaloni e una grande macchia all’altezza della cerniera». In seguito la tragedia investe lo stesso Mario: i fratellini non riuscivano a capire «come potesse tenersi attaccato alla trave del soffitto, visto che le braccia ciondolavano lungo i fianchi». E tutto si conclude con un ennesimo dramma che coinvolge nuovamente Antonello, come a chiudere un tragico cerchio metallico unto di silenzio e arrugginito dal dolore: «Non riuscivo a vederlo, guardavo in alto, invece era qui, a pochi centimetri da terra».

L’isola delle lepri non è un romanzo morbido. È acuminato come una coltellata. Ma l’accattivante originalità descrittiva e l’intensità di sentimenti espressa alleviano la lettura facendo percepire davvero l’odore di quel mirto, il biancore di quelle nevicate di pecorino sugli gnocchi, il colore turchino di quel mare, la terra bagnata sotto a tutti quei piedini scalzi.

Forse tra gli ingredienti c’è anche qualcosa di autobiografico? Chissà. Si ha quasi la sensazione che Falchi, in certi punti, abbia desiderato uno sfogo, un inedito spirito di denuncia. Potrebbe trattarsi solo di una suggestione, eppure a mio parere mai titolo più adatto è stato scelto per un concatenarsi di vicende all’insegna di un coraggio mancato, riscattato in ultimo dall’autrice, calatasi negli eventi come stremata ma rivoluzionaria coprotagonista.


(Anna Maria Falchi, L’isola delle lepri, Guanda, 2013, pp. 211, euro 15)

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