“I cani abbaiano” di Truman Capote

di / 21 maggio 2013

Stando a I cani abbaiano (Garzanti, 2013), Truman Capote non si è accontentato d’essere uno dei pesi massimi della narrativa del Novecento. No, lui quel secolo l’ha voluto vivere fino in fondo. Oltre a raccontarlo, ha voluto calarsi completamente nel suo tempo e nella storia. Viaggiare, respirare l’aria delle capitali del mondo, seguire i movimenti e le correnti, ascoltare e parlare con gli altri grandi nomi dell’epoca. Un percorso unico e prezioso, tra mondanità e spirito d’inchiesta, giornalismo e passione. I cani abbaiano diventa così il diario-confessione di Capote. L’opportunità e la voglia dell’autore di raccogliere, riscrivere e reimpostare in un apposito libro tutte le esperienze e gli incontri più significativi. Oscilliamo tra l’autobiografia e una visita al backstage. Sicuramente significativa è in particolare una frase della prefazione, in cui si racconta subito l’aneddoto alla base della scelta del titolo: «Tutto quanto si può leggere qui è reale, il che non significa che sia la verità, ma lo è per quanto a me è possibile individuarla».

Dopo la prefazione – in cui volano già da subito nomi e vicende importanti – Capote inizia a raccontare in Colore locale (1946-1950) alcuni momenti della sua vita usando come pretesto e mezzo le città visitate o in cui ha risieduto. Partendo dalla New Orleans «simile a un quadro di De Chirico», alla  venerata New York, passando per i soggiorni italiani e greci. Non solo cronaca e descrizioni, ma arguta finezza nello scorgere i piccoli meccanismi dietro i tanti microcosmi che muovono i paesaggi e le città.

Segue Si sentono le muse (1956), il racconto in presa diretta delle vicende riguardanti la compagnia teatrale dell’opera Porgy and Bess. Questa sezione, vista la lunghezza e alcuni tratti monotoni, può rallentare la fruizione del libro, ma al lettore conviene andare avanti, poiché con Osservazioni (1959) arriva la parte più interessante. Qui si capisce quanto Capote abbia vissuto in maniera viscerale l’arte. Un continuo rapporto d’osmosi. Quasi una missione, in cui è impossibile separare letteratura e vita. Lo dimostra il capitolo riguardante l’opera più significativa dello scrittore: il capolavoro capitale della narrativa contemporanea A sangue freddo. Capote non ci racconta la genesi del libro, bensì la sua presenza sul set durante la trasposizione cinematografica del romanzo. A tale riguardo, offre un’illuminante quanto profonda e complessa riflessione: «Tutta l’arte è composta di particolari scelti: immaginati o, come in A sangue freddo, un distillato della realtà. Per il libro, così come per il film, solo che io avevo tratto i miei particolari dalla vita, mentre Brooks (il regista) aveva ricavato i suoi dal mio libro: la realtà due volta trasposta, e per questo ancora più vera». Una riflessione davvero notevole, che accompagna il regista nel ricordo. Un ricordo che non tralascia i momenti di forti e d’impatto, come quando Capote rimane sbigottito nel vedere la somiglianza tra gli attori scelti e i protagonisti del libro: gli assassini erano tornati in vita!

E come se non bastasse ad appagare il lettore avido di aneddoti e riflessione, ecco la serie di ritratti a star e capisaldi della cultura del Novecento. Memorabili quelli a Gide e Cocteau, come quelli a divi senza tempo del cinema come Bogart e la Monroe. Forse il più bello ha come protagonista Ezra Pound, poiché Capote afferma: «Qualche mese dopo, alla vigilia del processo per tradimento, fu dichiarato pazzo, come potrebbe esserlo qualsiasi poeta in possesso delle sua facoltà artistiche».

Animato dalla verve e l’acume di Capote, I cani abbaiano è un ottimo modo per conoscere al meglio una delle penne più importanti della letteratura contemporanea e, ovviamente, tutta l’arte e la storia che è riuscita a vivere e custodirsi attorno.

(Truman Capote, I cani abbaiano, trad. di Mariapaola Dettore, Paola Francioli e Bruno Tasso, Garzanti, 2013, pp. 408, euro 20)

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