“Alzheimer mon amour” di Cécile Huguenin

di / 15 ottobre 2013

Alcuni credono che la letteratura, non dovendosi riferire principalmente al parametro delle cose attuali e reali, abbia come scopo principale la generazione dei sogni; altri ammettono invece che essa debba e possa anche rispecchiare la realtà, raccontare insomma ciò che bene o male succede nel mondo e nel presente. Di questi ultimi, alcuni sostengono che affinché l’autore di un racconto appiattito sulla nostra stessa realtà possa essere considerato creatore di un testo letterario propriamente inteso, egli debba seguire i criteri sostanziali dell’estetica e i criteri formali della piacevolezza, per dirla brutalmente senza troppe complicazioni d’ordine accademico; altri, invece, si accontentano che l’autore in questione sia mosso dal sentimento genuino (preferibilmente buono, va da sé), trasportato dall’afflato intimo del proprio animo e disposto ad aprire il proprio cuore, per dirla in termini da pomeriggio televisivo. Ed è esattamente in quest’ultima categoria, è molto probabile, che si possono trovare coloro che apprezzeranno più di altri Alzheimer mon amour (Clichy, 2003), della psicologia francese Cécile Huguenin.

In questo libro, attraverso una ricostruzione posteriore, si parla con dolcezza di una donna ed è una donna che parla dolcemente (l’autrice, appunto): una donna alle prese con la degenerazione cerebrale del suo compagno di una vita, preludio di una morte che naturalmente non si farà troppo attendere. Ventura drammatica, certo, ma piuttosto comune nella nostra contemporaneità e, si dice, ancora non molto discussa, anzi taciuta, aggirata, scarsamente affrontata dal pubblico dibattito.

Sicché Cécile Huguenin ripercorre dal suo punto di vista le tappe di quel lento declino che, alla lontana da ospedali e case di cura, ha portato suo marito al definitivo spegnimento e la coppia, come si legge anche in quarta, a vivere un lutto prima ancora dell’arrivo della morte, con la puzza di zolfo, l’umbrifora falce minacciosa e tutto il resto. Alzheimer mon amour risponde in tal modo a una domanda assai presente ai nostri tempi, di ordine sociale si potrebbe anche dire, in cui l’emergere e il continuo consolidarsi del fenomeno collettivo (oltreché individuale) delle malattie degenerative, a cui assistiamo in maniera sempre più serrata, è lo scotto da pagare all’allungamento delle nostre biografie; almeno qui a Occidente, questo è ovvio. Il libro della Huguenin affronta dunque siffatta questione ponendosi sulla scia, più o meno consapevolmente, questo non possiamo saperlo, di molti altri libri più o meno riusciti, tra cui il memorabile Una morte dolcissima, struggente diario di una Simone de Beauvoir spettatrice inerte della morte estesa e medicalizzata della sua povera madre.

Questa la domanda, o meglio la serie di domande: come si vive, e come si reagisce, quando un caro sta morendo a poco a poco? come si fanno i conti con la morte? come si accetta l’incipiente evento postremo nella continuità del suo palesarsi giorno per giorno? come si affrontano la medicalizzazione e l’ospedalizzazione in questi casi? è possibile rendere docile la morte e la malattia per farle ridiventare eventi familiari e domestici?

Ognuno dovrà trovare la soluzione a tutto questo a modo suo, certo, e anche in base alle possibilità che economicamente e contestualmente gli sono date, e anche questo è certo. Tuttavia, qualsiasi risposta a questa serie di domande, anche quella pur sempre edulcorata, borghese e benestante di Cécile Huguenin, potrà di sicuro aiutare e confortare tutti quegli altri che queste terribili questioni, loro malgrado, si troveranno purtroppo a doversi porre. Forse in tutto questo la letteratura c’entra poco, è vero, ma probabilmente non è questo il punto.

(Cécile Huguenin, Alzheimer mon amour, trad. di Michele Peretti, Clichy, 2013, pp. 160, euro 10)

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