“Herzog” di Saul Bellow

di / 8 novembre 2013

Insignito nel 1976 del Premio Nobel per la letteratura, «per la comprensione umana e la sottile analisi della cultura contemporanea che sono combinate nel suo lavoro», Saul Bellow solo qualche anno prima dava alla luce Herzog, sesto romanzo della sua certamente felice produzione.

Protagonista dellʼopera è appunto Moses Elkanah Herzog, intellettuale ebreo della prima ora e soprattutto uomo a dir poco singolare, sempre orbitante intorno allʼossessivo ed epistolare tentativo di trovare un senso tra le cose del mondo che, senza soluzione di continuità, gli scorrono davanti quasi a scandire lo stato di impasse della sua vita: due volte sposatosi, e altrettante separatosi, padre poco presente di due figli, tra un flashback e lʼaltro, dovunque si trovi, costantemente roso dalla propria indomabile exacerbatio cerebri, Herzog ricorda, ragiona, si arrovella; e scrive lettere che non spedirà mai; le scrive a chiunque, vivo o morto, per un motivo o per lʼaltro sente a sé vicino, cercando forse di chiudere chissà quale cerchio, di fare infine chissà quale tipo di conti. È pur lecito pensare che prima o poi i bilanci della propria esistenza dovranno quadrare: il lavoro accademico non vede però progressi da tempi che ormai sanno solo di polvere, lʼombra malevola di Madeleine, lʼultima moglie, torna con intervalli più o meno regolari a fargli presente che anche la loro piccola June ha bisogno di lui, checché ne dica la stessa madre o il di lei attuale compagno, Valentino, già amico di Herzog. E non basta nemmeno la raffinata arte amatoria della fascinosa Ramona a placare del nostro lʼansia centrifuga: in continuo movimento, Herzog non trova pace, e non nella carne, non nello spirito; tutto ciò che lo circonda quindi sfuma, si perde, a volte torna, di nuovo svanisce; è dunque messo al bando, Moses Elkanah Herzog, o desidera più semplicemente il vuoto intorno?

Né lʼuno né lʼaltro, vien da dire: Saul Bellow, attraverso un personaggio per certi versi monumentale – almeno nella misura in cui dimostra una capacità a tratti esasperante, e forse inconsciamente autocompiacente, di problematizzare ogni affanno e di scandagliare di riflesso le stanze della propria interiorità, e venirne o meno a capo ha ben poca importanza, siamo del resto agli albori della frammentata e frammentante era postmoderna… Sembra suggerire tra le pagine di questo straordinario romanzo che ciò di cui in verità si ha bisogno, oltre ogni amore e sopra alle idee – riecheggiando lʼacquisizione dostoevskiana che vede la vita signoreggiare sul senso della stessa vita – è infine lʼaccettazione di sé, primo abbacinante luccichio della propria, più intima e ineffabile, bellezza. Può capitare allora di stendersi su un divano, in una diroccata casa di campagna, a Ludeyville, Massachussetts, e sentire per la prima volta senza tensioni la vita fluire, leggera, la propria vita, con tutti i suoi suoni. E magari così addormentarsi, prima di cena.


(Saul Bellow, Herzog, trad. di Letizia Ciotti Miller, Feltrinelli, 1965)

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