[RomaFF8] Giorno 3: “Her”, “Song’e Napule” e “En Solitaire”

di / 11 novembre 2013

Quarto film per Spike Jonze, dopo l’escursione nel mondo dell’infanzia con Nel paese delle creature selvagge, che arriva in Concorso ufficiale alla Festa Internazionale del Film di Roma con Her, storia d’amore e di solitudine.

Theodore è un uomo solo. Sta uscendo da un matrimonio, ha perso la voglia di uscire e stare con gli amici. Passa le giornate tra il lavoro e i videogiochi. Quando viene rilasciato un nuovo sistema operativo informatico in grado di relazionarsi direttamente con l’utente (una specie di Siri ancora più evoluto) lo istalla sui suoi terminali e incontra così Samantha, il suo assistente virtuale. Theodore si ritrova in una relazione tutta particolare con una voce artificiale che sembra essere l’unica a comprenderlo e assisterlo, finché l’amicizia non diventa amore, ricambiato.

Non è la prima volta negli ultimi tempi che un film Usa si interroga sul senso e le possibilità di un amore disfunzionale. Era capitato che uno scrittore si innamorasse di un proprio personaggio in Ruby Sparks, o che un uomo non proprio equilibrato perdesse la testa per una bambola gonfiabile in Lars – Una ragazza tutta sua, ora Spike Jonze declina la solitudine nelle nuove frontiere della realtà digitale. Siamo tutti in collegamento, eppure non riusciamo a comunicare, al punto che appaltiamo ad altri il compito di scrivere le lettere ai nostri cari. È questo il lavoro che Theodore fa, nel futuro non così lontano immaginato da Jonze: mettere in parole i sentimenti degli altri, dagli innamorati ai nipotini grati. Quando si tratta di farlo per sé, però, non è in grado. Solo Samantha riesce a comprenderlo, di trovare il modo di entrare in contatto con la sua natura intima come non succedeva da molto tempo. Non è solo Theodore a beneficiare del rapporto. Samantha dalla relazione con l’uomo apprende una dimensione sentimentale che non era in grado di comprendere. Un po’ replicante di Blade Runner, la voce digitale anela ad una completezza umana che la sua forma superiore non gli consente.

È un’immagine dolce e amara delle relazioni umane, nonché una riflessione, leggera, sui rischi delle tecnologie e dei suoi abusi, quella messa in scena in Her. Spike Jonze si è scritto il film da solo senza l’aiuto del fido Kaufman. La sceneggiatura ne risente nella seconda parte, troppo virata sul dramma sentimentale. Joaquin Phoenix nei panni di Theodore condensa solitudine e tristezza. Scarlett Johanson offre la sua voce sensuale a Samantha e lascia il segno (sarà dura trovare una doppiatrice all’altezza).
 


Nel frattempo, Fuori concorso, i fratelli Manetti continuano a omaggiare il cinema italiano di genere degli anni Settanta e Ottanta con Song’e Napule, poliziottesco in salsa partenopea.

Paco Stillo è un poliziotto senza vocazione. Ha studiato pianoforte al conservatorio, poi grazie a una raccomandazione imposta dalla madre è finito suo malgrado in polizia. Il suo talento pianistico lo farà finire infiltrato nella band di Lello Love, cantante neomelodico ingaggiato da un pericoloso camorrista per il matrimonio della figlia. Tra gli invitati ci dovrebbe essere il latitante Serracane, detto O’Fantasma, ricercato da decenni e di cui non si conosce neanche il volto, ma un solo segno particolare.

L’omaggio al poliziesco all’italiana riesce e funziona. Song’e Napule diverte senza preoccuparsi di analizzare la malavita campana o la corruzione delle istituzioni a cui fa riferimento, ma limitandosi a proporre una storia di amicizie improbabili ed eroi casuali.

Giampaolo Morelli, già Coliandro per i Manetti, scrive il soggetto e si diverte a interpretare il tamarrissimo Lollo Love.
 


Nella sezione Alice nella città, il primo lungometraggio del francese Christophe Offenstein, En Solitaire, vede uno strepitoso François Cluzet (Quasi Amici) affrontare in solitaria l’Oceano. Che i francesi siano un popolo di navigatori, partendo dalle antiche tradizioni bretoni per arrivare fino all’epoca coloniale e napoleonica, già lo sapevamo. Il mare è una costante per i nostri cugini d’Oltralpe. Lo spirito dei matelots (così chiamano i marinai in Francia) è qualche cosa di forte e sentito.

Con questo lungometraggio ci si imbarca direttamente nella mitica corsa nautica della Vendée Globe al fianco del protagonista Yann, vecchio lupo di mare arrivato a questa avventura, che prima ancora che sportiva è soprattutto una vera e propria sfida umana, filosofica ed emotiva. La competizione è tutto, vincere è l’unica parola d’ordine. Tutto è perfetto, tutto è destinato a rendere grande Yann. Tutto viene però a vacillare quando il bretone si rende conto di non essere più solo su quella barca. Un giovane clandestino mauritano è salito a bordo. La tempesta non è più solo in mare, ma anche dentro Yann.

Si riesce a respirare l’aria salina, la forza violenta del vento, l’infinito senso di impotenza quando tutt’intorno non si ha nient’altro che il mare in En solitaire. Girato in quaranta giorni di crociera, con impressionanti riprese in esterna tra burrasche e vele da cazzare in continuazione, questo thriller marittimo cerca di dipingere il ritratto di un eroe moderno, un eroe di tutti i giorni. Cluzet interpreta a meraviglia una persona ordinaria che di punto in bianco si ritrova in condizioni straordinarie.

Nonostante la buona idea di partenza, nella sua evoluzione En solitaire non riesce ad essere all’altezza delle premesse. La sceneggiatura manca di costanza e poco a poco si perde. È ben realizzato, ma incompleto. La storia presenta proprio il classico cliché francese: la ricerca della morale. Questo finisce per banalizzare un film che poteva essere davvero promettente ed originale, senza tramutarlo nel solito polpettone hollywoodiano. Perché quindi non attenersi alle cose più semplici, perché non mettere in scena unicamente la maestosità di una sfida sportiva? 
 

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