“La banda del formaggio” di Paolo Nori

di / 12 novembre 2013

Bisogna esserne coscienti. Questa lettura non è disarmata. Viaggia leggera, fischietta perfino, ma è piena di dossi e di feritoie. Chi predilige una linea retta, la peggiore aspettativa per un buon romanzo, farebbe meglio ad astenersi. Aprendo La banda del formaggio di Paolo Nori (marcos y marcos, 2013), appare evidente: questo libro ha in allegato il suo bugiardino. Rischio aguzzo di vertigini, spasmi voraci da saliscendi, senso incombente di smarrimento. Nettamente sconsigliato a chi ha problemi di equilibrio.

Poi certo, se si è già frequentatori assidui di Paolo Nori, del parco faunistico delle sue storie sgangherate, se Learco Ferrari, rattoppato esilarante protagonista di capogiri di carta come Basstotuba non c’è e Si chiama Francesca questo romanzo, è un fiero inquilino dei propri ricordi, in questo caso allora, non c’è niente da temere. La trama fa fatica a srotolarsi, è vero; da un apparente punto centrale ne sgorgano secchiate di altri, che sembrano atomici, gioiosamente minuscoli ma poi, a incapparci dentro, si rivelano periferici a niente e cuore di se stessi e arterie del resto. La trama si tram-uta in un tappeto intarsiato da tante mani che sono una sola. La strampalata geografia del testo presenta un narratore, Ermanno Baistrocchi, editore impegnato a dimostrare la qualità intrinseca dei suoi “prodotti” al cospetto dei vari concorrenti.

La casa editrice non indossa il suo cognome, perché quel Baistrocchi strideva troppo col fruscio delle pagine e allora il padre scelse Barbarini, più fluido da stampare e da rimanere impresso.

In un momento di necessità, quando Ermanno ha bisogno di liquidi per acquistare un paio di librerie, il libraio Paride, che condisce ogni parere con un grosso «Zioboja», gli propone di diventare socio.

Salvo poi scoprire che quella gerla di ossigeno e futuro, forse, era più sporca del previsto. Che quei soldi erano coperti di briciole. Scaglie di parmigiano, per l’esattezza. Soldi derivati da un furto di formaggio.

Salvo poi appurare che Paride non è più salvo, perché si è suicidato. E questo è solo l’inizio della spirale.

Perché nel gorgo frastagliato dei discorsi di Ermanno, nella giungla dei suoi “che polivalenti”, nella bufera delle sue parentesi, scivolano come un soffio d’olio la figlia Daguntaj, che non è frutto di un’adozione indiana, ma la versione gustosamente locale di «dacci un taglio», il genero «Illuminista», che si rivolge all’elettricista anche per avvitare una lampadina, i polmoni svuotati da un sonoro «Mo Mama» (titolo dell’ultimo saggio di Nori pubblicato da Chiarelettere), le sere pedalate al tramonto di Parma, che respirano di un fiato quasi indescrivibile, i cieli sgolati di via Porretana, le fiere del libro, i treni interregionali, coi biglietti lunghi per scongiurare il caldo.

E Paolo Nori è lo stesso che, oltre agli slalom tra gli anacoluti, alle giaculatorie chiacchierate delle sue riflessioni da spulciamento del giornale, ha magistralmente tradotto Daniil Charms, Velimir Chlebnikov, Michail Lermontov, lo stesso che snocciola frammenti di Auden, Mandel’stam, Tolstoj spacciandole per esalazioni liriche di poeti della Guyana belga. Lo stesso che sembra un dirimpettaio saggio e dissacrante intento a sciorinare segreti tra uno sbadiglio e l’altro. Come fa Ermanno, il suo portavoce ne La banda del formaggio, sostenendo per esempio che il suo lavoro consiste nel: «far notare un’impercettibile differenza. Come uno che è alto uno e cinquantanove e uno che è alto un metro e sessantuno, una differenza impercettibile, ma sostanziale».

E così gli era sovvenuto che «le differenze importanti erano quelle lì, quelle impercettibili, che avevano una loro natura che poi, quando le percepivi la prima volta, dopo non potevi più fare a meno di percepirle».

Bisogna farlo. Assaggiare l’impercettibile. E accettare. Che vortichi la testa, che il fraseggio non sia iperletterario, lineare, inappuntabile, ma piuttosto disorganico, rimasticato, (fastidioso?), un bolo di pensieri spuntati da una botola. Che la vicenda passeggi tra continue digressioni, mentre il soffitto del giorno è Casalecchio del Reno o una fiera del libro da cui congedarsi alla svelta voltando le spalle.

E non importa ricordare esattamente cosa si è detto prima di impugnare quell’ultima porta. Ciò che importa è la «La vite tagliata», «Filastrocca per la morte del nonno», versi per nipoti che non esisteranno. Ciò che conta in un libro di Paolo Nori non è dove si arriva, ma quello in cui s’inciampa nel tragitto.

Leggere o mollare.

(Paolo Nori, La banda del formaggio, marcos y marcos, 2013, pp. 224, euro 15)

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