“Avventura brasiliana” di Peter Fleming

di / 22 novembre 2013

Il fratello come topos letterario: già dal «fratello Giovanni» – suicida quando si scopre, nella cassa del reggimento da lui amministrata, l’ammanco per ripianare debiti di gioco – che valica la memoria scolastica, con accanto il frater cui Catullo «multas per gentes et multa per aequora vectus» porta le sue lacrime; ma ci sarebbe, ovviamente, anche il fratello Gherardo, ex compagno di stravizi, che, ormai certosino, ospita a Montrieux un azzimatissimo Petrarca, dapprima entusiasta del silenzio claustrale, ma entro pochi giorni incapace di reggerlo un minuto di più; e Paolina Leopardi, cui un provvido destino di zitella impedì di mettere al mondo i figli «o miseri o codardi» che le profetava Giacomo; oppure Mariù Pascoli che parla in giardino con l’amica ex-collegiale minata da una consunzione che ha dietro un po’ più, della digitale purpurea; o anche, per totale preterizione dalla Recherche, il fratello minore, il medico Robert cui toccò vigliare sull’agonia di Marcel. Con Heinrich Mann, invece, si entra nella specialissima fattispecie del fratello scrittore: e perciò da oggetto di letteratura, a rivale in letteratura: che sarebbe poi anche il caso di Peter Fleming, la cui condizione di antecedente letterario, e perfino di mentore editoriale (e non del tutto congetturale modello del pluri-cinematografato James Bond) del fratello minore Ian, non sarebbe probabilmente mai venuta alle nostre orecchie, senza questa Avventura brasiliana (Nutrimenti, 2013), soltanto ora, dal 1933 in cui uscì, tradotta in italiano.

Il libro è sfacciatamente, beffardamente impostato su di un consapevole disattendere tutte le aspettative che la tradizione, soprattutto quella tardo-ottocentesca, dei libri di viaggio e di quelli d’avventura (ne era gemmato, in Italia, quanto meno il bonario esotismo casalingo di un Salgari) potrebbe legittimamente indurre nello speranzoso lettore: e invece, niente. La quête – dell’evanescente Fawcett, perso dietro fantasmi di eldoradeschi Machu Picchu nella foresta amazzonica – che era stata messa là come debole pretesto all’impresa, si rivelerà fallimentare, alla fine, quant’era inconsistente in partenza; l’ambiente tropicale verrà sì tratteggiato con appropriati tocchi di colore, ma anche col più spudorato sprezzo di qualsiasi osservanza di nomenclature scientifiche; l’abbattimento della fauna tropicale – non che far da culmine a mirabolanti climax narrativi – apparirà dominato dalla più piatta, gratuita delle accumulazioni, e così via.

Dov’è, allora, il fascino di questo libro? Sicuramente, nella forma: la raffinata tournure data costantemente alla frase da un vigile, insonne scintillio d’umorismo, d’ironia: lo sfolgorare della razionalità umana tanto più difficoltosamente – e vittoriosamente – a contrasto con il suo rovescio, la stupidità e l’assurdo, mai così copiosamente squadernati, come nelle mille anse-episodi in cui, fluvialmente, si snoda questa Avventura brasiliana.


(Peter Fleming, Avventura brasiliana, trad. di Francesca Valente, Nutrimenti, 2013, pp. 480, euro 22)

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