Dimmi solo di sì

di / 7 dicembre 2013

Ogni volta che mio padre le passava accanto, mia madre gli sputava fra i piedi. Sempre.
Tutte le volte lei faceva lo stesso gesto: inarcava leggermente la testa all’indietro e poi sputava rumorosamente per terra, nei paraggi. Entrambi rimanevano in completo silenzio e non si scambiavano il minimo sguardo.
All’impiedi o da seduta, anche se lui era dietro di lei o camminava a passo svelto, mia madre era disposta a girarsi in qualunque direzione pur di non mancare quell’appuntamento e fargli arrivare lo sputo quanto più vicino possibile.
Se c’è una cosa che mia madre mi ha insegnato è quella di non perdere mai una buona occasione.
«E se un giorno di questi ti invitassi ad uscire?» Lo dissi così, di getto, alla commessa mora che era seduta sul pavimento, appoggiata con la schiena al bancone della gioielleria. Lei mi guardò e non rispose. Era sconvolta, aveva i capelli sciolti e il tailleur sgualcito. Si tamponava il naso sanguinante con un fazzoletto di carta. Mimmo, appena eravamo entrati, le aveva dato un colpo con il calcio della pistola per allontanarla. Nonostante tutto io la trovavo bellissima e se l’avessi vista in qualunque altra occasione, non solo durante la rapina che stavamo facendo, comunque non sarei riuscito a levarmela dalla testa.
La mora continuò a stare in silenzio. Mi resi conto che in certi momenti è difficile dare una risposta a un rapinatore. Capii anche che avrebbe voluto mandarmi affanculo, ma aveva troppa paura per farlo e già il gesto di alzare lo sguardo, probabilmente, era proprio per evitare qualche reazione da parte mia. Ci provai lo stesso, hai visto mai fosse stata una di quelle che si eccita con i cattivi, una di quelle che scrive le lettere ai serial killer in carcere. Invece no, lei era una donna normalissima che probabilmente cercava o aveva un fidanzato normalissimo e per la quale io ero solo un criminale. Un patetico criminale, per giunta.
Già avevo immaginato quanto sarebbe stato bello portarla a mangiare da Mimì al Belvedere, che sì, era un po’ caro ma dopo la rapina non sarebbe stato un problema. Poi a ballare e poi a casa mia a fare l’amore fino alla mattina dopo.
Io sono fatto così, quando mi immagino qualcosa vado fino in fondo, senza trascurare nessun dettaglio, penso perfino ai nei sulla schiena che avrebbe avuto. Per inciso: sarebbero stati dei bellissimi nei.
Quando Mimmo mi aveva detto che c’era questo colpo che richiedeva poca tattica, che i gioielli era praticamente questione di andarli a prendere e portarseli a casa, nemmeno questa, di occasione, mi ero fatto scappare. Grazie, mamma.
Mimmo adesso era morto. Steso per terra con un litro di sangue che gli usciva dal petto, a circa un metro dal proprietario della gioielleria, disteso anche lui sul pavimento, stecchito da un proiettile che gli aveva perforato il collo. Accadde tutto nei due secondi in cui mi sono voltato per vedere se qualcuno da fuori si avvicinava al negozio. Il proprietario aveva attivato il sistema d’allarme che chiama la Polizia e blocca la cassaforte, Mimmo gli puntò la pistola al volto e lui rispose tirando fuori la sua. Nessuno di noi due immaginava che ne avesse una.
Io volevo solo scappare, ma la maniglia della porta sembrava girare a vuoto. Quando urlai alla commessa di aprire, lei fra le lacrime mi disse che non ci riusciva perché quel cazzo di allarme aveva fatto impallare anche l’impianto elettrico. Eravamo bloccati. Io, la ragazza e i due cadaveri. Lei si lasciò andare strisciando con la schiena sul bancone.
Dopo pochi secondi una volante con i lampeggianti accesi frenò sgommando davanti all’entrata. Due agenti scesero e puntarono le pistole.
Saranno passati una decina di minuti nei quali io non riuscivo a fare nulla se non a guardare i poliziotti e a fargli vedere che tenevo la pistola in direzione della ragazza. Mi dicevano di posare l’arma e di non fare niente e io per tutta risposta andai vicino al mio amore, le presi il volto e le avvicinai la canna della calibro nove cinese.
A mezza bocca le sussurrai «Sta’ calma. Tutto quello che voglio è andare via di qua. Vedrai che non succede niente, hai capito?», con uno sforzo mi rispose di sì. «Brava», feci, Ti amo, avrei voluto aggiungere.
Ecco, mi arrabbiai perché questa cosa non potevo dirgliela. Dovetti frenarmi per non far uscire quelle parole. Io vedevo già felicità, famiglia, bimbi e viaggi insieme, ma coi ti amo ci devi andare davvero piano. È per un ti amo al momento sbagliato alla persona sbagliata che mio padre si è guadagnato le sputazzate vita natural durante.
Quasi venti minuti a camminare per il negozio, con gli agenti in divisa blu che guardavano da fuori e io che giravo con il braccio continuamente teso verso la ragazza, come a tenere un cane al guinzaglio. No, certo che non sei un cane, amore mio, era per far capire.
Mi rivolsi ai poliziotti fuori. Dissi che volevo andarmene e che avrei portato con me la ragazza. Era la mia intenzione, in ogni senso, quindi riuscii a dirlo senza esitazione, credibile quanto bastava. Dettai le regole: aprire senza fare scherzi, lasciarmi andare mentre io fuggivo via. Avrei usato senza problemi la ragazza come scudo. Cominciai a inveire senza senso contro di loro, così, per aggiungere un po’ di spessore al discorso.
Quando notai che uno degli agenti distoglieva lo sguardo da me per rivolgerlo alle mie spalle, ebbi la visione della stronzata che avevo appena fatto senza rendermene conto.
Mi voltai e la vidi, lanciata verso di me, un’espressione decisamente incazzata. Mi colpì al volto con la lampada argento 925, fusto a torciglione e paralume in vetro temperato. Me la ricordavo bene perché tutte le volte che facevamo un giro di perlustrazione in gioielleria, mi fermavo a leggere i cartoncini vicino alla roba esposta. Restavo inchiodato alla vetrina all’angolo perché da lì potevo vedere meglio lei, appunto, e non riuscivo a concentrarmi sulla posizione delle telecamere e degli allarmi.
Mi sei piaciuta: coraggiosa e violenta al momento giusto, cucciola mia.
Mentre crollavo al suolo non ero triste, ma sereno. Per certi versi sapevo che sarebbe stato giusto così. Il rumore dei vetri in frantumi, il volto sfocato di Mimmo, senza vita. Persi completamente i sensi.
A quella tenera ragazza, ormai compagna della mia vita, che aveva appena tentato di fracassarmi il cranio, mi sarebbe piaciuto dire che non sapeva cosa si stava perdendo.


Questo racconto si è classificato primo al concorso Memoracconti – Storie da ricordare (seconda edizione), organizzato da edizioni Memori, in collaborazione con Flanerí.

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