“Chiamatemi Ismaele” di Marisa Bulgheroni

di / 17 gennaio 2014

Una storia d’altri tempi, quella raccontata da Marisa Bulgheroni in Chiamatemi Ismaele (Il Saggiatore, 2013): la storia di una giovane studiosa italiana che approda a New York nel 1959, e dopo aver trovato inizialmente rifugio nelle accoglienti sale della Public Library decide di uscirne, e di andare non a studiare, ma a incontrare i protagonisti di quella che sarebbe diventata una delle epoche più produttive ed eccentriche della letteratura americana.

Meglio detto, non una bensì tante storie che, quando sono state per la prima volta catturate sulla pagina e diffuse – per lo più su quotidiani e riviste, su tutte Il Mondo di Pannunzio –, non erano per nulla d’altri tempi, anzi, avevano la freschezza di ogni avanguardia. Dalla volontà di scoprire e raccontare le voci più innovative dell’immenso calderone creativo che erano gli Stati Uniti degli Sessanta (e ben oltre, poiché gli articoli sono stati scritti tra il 1959 e il 1991) nascono infatti questi brevi reportage, a volte semplici bozzetti, altre volte interviste romanzate, delicati ritratti di scrittori spesso diversissimi tra loro: da Normal Mailer a Carson McCullers, da Allen Ginsberg e Jack Kerouac ad Harold Brodkey, ma anche Nabokov, E.L. Doctorow, Saul Bellow e altri ancora.

Il titolo stesso del volume, citazione ormai universale e cara a chiunque si sia accostato almeno una volta a quelle latitudini letterarie, è una dichiarazione programmatica: Melville si erge a emblema dell’anomalia che allora la letteratura americana rappresentava. Una letteratura nella quale, come scrive la Bulgheroni nel saggio introduttivo al volume, «il rapporto tra parola scritta e dato reale si presentava, come mai in altre, immediato, fisico: il mito oceanico di Melville sapeva di sale». Ed è lo stesso approccio che sembra voler seguire l’autrice, camminando per le strade, uscendo da alberghi e biblioteche per andare fisicamente a incontrare figure ancora grezze e immuni dal successo letterario, e restituendoci oggi scene raffinate – nel contenuto e nello stile – che a posteriori, con il trascorrere del tempo e dei libri, hanno acquisito ulteriore valore e significato.

Chiamatemi Ismaele è per il lettore contemporaneo una sorta di viaggio nel tempo, alla scoperta delle letture più amate da Donald Barthelme, per esempio, della lucida concretezza di Edmund Wilson, o della promessa romanzesca che già si celava nel ventiseienne Philip Roth.

Da sempre studiosa attenta e costante dell’America e di tutte le sue espressioni letterarie, instancabile divulgatrice di autori del calibro di H.D. Thoreau ed Emily Dickinson, Marisa Bulgheroni – dal profilo più accademico e sobrio della collega Pivano – ha il grande pregio di fare della critica letteraria anche un’esperienza sensoriale e personalissima, oltre che un esercizio di narrazione. I suoi scritti assumono così la forza delle cose immediate, dirette, in cui l’assenza di tecnicismi non è mancanza di approfondimento ma un atto di condivisione con il lettore di qualcosa che va al di là di un saggio ben confezionato, e si avvicina piuttosto a un frammento di vita, di storia. Da qui il sottotitolo, Racconto della mia America: una visione soggettiva, dunque, la cui lettura è quasi assimilabile a quella di un carteggio privato, ma resa universale dalla scrittura.

(Marisa Bulgheroni, Chiamatemi Ismaele. Racconto della mia America, Il Saggiatore, 2013, pp. 216, euro 17,50)

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