“Messaggero d’amore” di Leslie P. Hartley

di / 29 gennaio 2014

Diciamo la verità, difficilmente nella grande bouffe del recente Più libri più liberi un titolo come questo Messaggero d’amore (Nutrimenti, 2012), più da collana Harmony, è vero (ma come rendere altrimenti in italiano il molto meno zuccheroso The go-between dell’originale? Pensate solo per un attimo all’orrore di un letterale «quello che va frammezzo»…!), avrebbe attirato la nostra attenzione, se, con abile mossa di marketing, l’editore di questa nuova traduzione del libro uscito nel 1953, non avesse provveduto a darle il titolo escogitato, più di trent’anni fa, dalla distribuzione italiana del fortunatissimo, fascinoso film che ne aveva tratto Joseph Losey.

Ecco dunque innescarsi la prevedibile scommessa: che, come nel novanta per cento di casi simili – non ultima, la reincarnazione televisiva, in una pur brava Valeria Puccini, di un’Anna Karenina inspiegabilmente travolta nella rovina dietro a un Vronskij di sconfortante insulsaggine, anche fisica–, l’originale letterario dovesse dimostrarsi sensibilmente, quando non astralmente, migliore.

Previsione rispettata, e scommessa vinta: per glamorous che potesse essere lo sguardo di Losey, per regale che potesse rifulgere l’anglica femminilità della Christie, niente vale la finezza introspettiva, la pregevole castità di tocco, la raffinata allusività di costruzione (pur non con qualche stonatura snobistica, quando il protagonista si sforza di aderire in toto al razzismo sociale dei suoi nobili anfitrioni, e si bea ad assaporarne gli ingessati rituali di convivenza) di questa narrazione.

Niente, e soprattuto la sublime trasparenza del nondetto (siamo nel 1953, non lo si dimentichi: in Inghilterra esiste ancora il reato capace di spedirvi a scrivere il De Profundis nel carcere di Reading…). Perché solo a un primo, e più superficiale livello, l’intreccio di base del romanzo è quello classico della ragazza di ottima famiglia, Marion, promessa a un uomo che non ama, Hug, fregiato sì del titolo di visconte, e pure di una deturpante cicatrice di guerra sul viso, ma legata sentimentalmente a un più aitante rappresentante delle classi umili, il di lui fittavolo Tom; e l’io-narrate Leo, all’epoca tredicenne, invitato in vacanza dal fratellino di Marion che è in collegio con lui, si trova coinvolto nella storia fra i due in quanto finirà a fare da tramite tutt’altro che inconsapevole dei loro messaggi d’appuntamento, nelle torride giornate di un luglio sul crinale del secolo.

Ma a una lettura appena più avvertita, l’avvenenza fisica della sororale fata-Marion, subito idoleggiata da Leo (reduce, nel flashbackd’apertura, da un’esperienza di angherie collegiali che avrebbe potuto figurare nel Giovane Törless di Musil: salvo a cavarsene con un abracadabra alla Harry Potter), finisce per trasparire come nient’altro che una più presentabile motivazione da cui il ragazzino venga condotto all’incontro con la trionfante caratura virile di Tom.

Una dimensione, quella del fittavolo, a un tempo paterna (è a lui che il protagonista, cui non resta che una smanceriosa, algida madre, chiederà, inesaudito, di spiegargli come funziona quel tipo di faccende là…) e cameratesca (la memorabile scena in cui, sotto gli occhi ammirati di Marion, una presa del ragazzino, inopinatamente promosso sur-le-champ da riserva a giocatore di una partita di cricket, toglierà a Tom la vittoria già di fatto sua), ma di certo, fino dalla scena d’esordio del bagno nel fiume, di sobrie, eppur nitidamente delineate, connotazioni corporee.

Questo accende di bagliori assai meno mielosi il mai dichiarato motivo per cui Leo – ribaltando, a un certo punto, il suo ruolo di go-between – porterà l’inteccio a una katastrophé ben diversamente distruttiva di quella che aveva coinvolto i due collegiali angariatori. Questo, infine, aiuta a vedere nella giusta luce la predica che, nelle ultime pagine del romanzo, una Marion sull’orlo dei novant’anni farà allo scapolone sessantenne Leo («avresti dovuto sposarti, Leo, sei inaridito dentro […] non senti il bisogno dell’amore?»), in difesa, sicuramente, della liceità del legame interrotto mezzo secolo prima («…non c’era niente di cui vergognarsi […] niente che potesse offendere nessuno»), ma soprattutto del fatto che «non esiste […] maledizione eccetto un cuore che non ama». A buon intenditor…

(Leslie P. Hartley, Messaggero d’amore, trad. di Marilena Renda, Nutrimenti, 2012, pp. 368, euro 19,50)

  • condividi:

Comments

News

effe

“effe – Periodico di altre narratività” numero dieci

“effe – Periodico di altre narratività” numero dieci

Archivio