“Tempo di imparare” di Valeria Parrella

di / 25 febbraio 2014

«Senza potere accettare, figlio, ogni cosa bella ebbe il potere di ferirmi senza recupero».

In una realtà parallela la maternità assume un valore imperante nel percorso della donna non più bambina non più adolescente, il passo successivo e naturale, la gioia della compensazione tra ciò che era e ciò che sarà. Ma questo blando ideale, appunto, può esistere (e resistere) soltanto nella metafisica concezione della vita fine a se stessa, dove l’essere e l’altro mantengono lo status di unica entità anche dopo il parto.

Mettere al mondo il più fragile dei figli, però, cambia le cose, le ingigantisce, le complica. La realtà trasforma l’occasione in frustrazione, ci rende consci dei limiti, alimenta le paure più che le certezze. Ed ecco che diventare genitori, diventare madri, senza smettere di avere le esigenze di figli, è solo il primo degli ostacoli da vaso di Pandora a cui bisogna sottostare con il rischio, a lungo andare, di votarsi alla sopravvivenza più che alla felicità.

Si impara così, un passo alla volta, a rimanere in equilibrio per insegnare l’equilibrio, a valorizzare le banalità per dare un nuovo significato ai gesti quotidiani, a trovare la forza proprio dentro quella fragilità che bisognava proteggere.

«E tutto quello che era frammento dentro di me, e confusione e dubbio, mi appare intero. Ognuna di quelle spade per tutta la schiena del drago ho dovuto superare per arrivare qui. E tu sempre con me, mano piccola nella mano grande, ma chi reggendo chi non saprò mai».

Libro splendidamente intimo questo della Parrella che ricorda nello stile il rigore e l’essenzialità di Dürrenmatt, e che centralizza le illimitate articolazioni genitoriali in un unico perimetro focale: l’accettazione. Perché di accettazione si parla in Tempo di imparare (Einaudi, 2014), ovvero di riuscire a individuare il giusto compromesso tra la negazione e l’eccesso di apprensione imparando, appunto, a chiamare le cose con il proprio nome, a dire finalmente senza remore la parola “handicap” ad alta voce.

Da qui in poi la strada dovrebbe essere in discesa sempre in quella famosa realtà parallela, ma non funziona così da questa parte, perché nonostante la 104 e l’abolizione(?) delle barriere mentali e architettoniche, il mondo resta un posto non accessibile a tutti in cui si combatte quotidianamente con la burocrazia e l’indifferenza ad armi impari.

«Siamo quella disperazione che impariamo a nominare perché non vinca, siamo quelle spade attraversate. Negli occhi, liquido scorre lo stupore che ci vede qui, ognuno di noi, senza pesare il problema del figlio suo o d’altri, senza un dio che ci accomuni, né la fiducia incontaminata nella scienza. Ma soli, liquidi nel nostro liquido dubbio sappiamo che l’altro sa, capisce, comprende. E allora siccome abbiamo quaranta anni, e non ci siamo votati al sacrificio, bensì tentiamo la felicità: restiamo attoniti. Nudi attoniti a riconoscerci in un incontro che voi figli ci avete regalato, nuova possibilità, senza che neppure lo sappiate: “Ma siamo noi, i genitori dei bambini disabili? Non eravamo genitori soltanto?”».
(Valeria Parrella, Tempo di imparare, Einaudi, 2014, pp. 136, euro 17)

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