“La paura e altri racconti della Grande Guerra” di Federico De Roberto

di / 19 marzo 2014

Della Grande Guerra – del cui colpo di pistola iniziale, a Sarajevo, si compiranno cent’anni giusti proprio il 28 giugno di quest’anno – sarebbe sbagliato aspettarsi, da questo asciutto, serrato racconto di Federico De Roberto, La paura (E/O, 2014), che torna in libreria dopo esservi comparso la prima volta nel 1921, un’analisi profonda, e magari umanamente sofferta, o una risentita denuncia, delle motivazioni meno confessabili, fossero l’imperialismo e il militarismo fin-de-siécle, o più brutalmente l’istinto belluino di Thanatos: tutto quello, insomma, a cui una corposa letteratura, saggistica certo, ma anche narrativa (per non parlare della metafisica rarefazione con cui si fa emblema lo stare «come /  d’autunno / sugli alberi / le foglie» dei soldati di Ungaretti) ci ha abituato, in questi cent’anni.

E, certo, il senso di sospensione delle pagine iniziali del racconto, con quell’attesa di un attacco nemico che sembra non voler venire mai, rievoca irresistibilmente le  pagine di Buzzati: e il confronto non è sicuramente, per altezza simbolica e scabra musicalità di dettato, a favore di De Roberto.

Né compaiono molte delle perplessità, umane e perfino evangeliche, prima ancora che d’impianto socialista, nutrite da altri ufficiali letterari – Lussu in primo luogo – a sfumare il personaggio del tenente Alfani: quello, cioè, sulcuipunto di vista, in sostanza, l’autore focalizza il meccanismo narrativo. Tant’è che solo alle sue riflessioni sono riservate le, poche, infrazioni alla regola veristica che prevede una rigorosa osservazione dei personaggi “dall’esterno”, senza sforamenti nel loro background emotivo e ideale; e che infatti funziona inflessibilmente per tutti gli altri personaggi del racconto, i soldati semplici falciati uno dopo l’altro, con supina osservanza di turnazioni nell’offrirsi alla fucileria austriaca, adesso sì, risvegliata.

Basti dire che l’umano-troppo-umano sentimento della paura non è ignoto, al tenente Alfani, come ai campioni di umanità ordinaria – tanto più, viene da dire, per le parlate regionali attentamente registrate da De Roberto con orecchio quasi da etnomusicologo, al pari delle citazioni di canti di trincea, ma senza il minimo brivido di contestazione antiunitaria, giacché ci si intende perfettamente, fra settentrionali e terroni – dei fanti a cui come ufficiale deve ordinare di andare a farsi ammazzare dai cecchini; ma De Roberto si affretta a fornirgliene l’antidoto: lui sì, lui solo, sa anche «lo sforzo sovrumano di vincere la paura» in cui la volontà «deve irrigidirsi, deve tendersi come una corda», benché non gli riesca d’impedirsi che, subito dopo, la corda stessa diventi, con effetto cui il verismo granguignolesco non toglie però coloritura poetica, «la corda del beccaio che trascina la vittima al macello».

E quando, nella spannung emotiva del racconto, a rifiutarsi di andare incontro alla morte certa sotto la fucileria nemica (ungherese, si badi: finché c’erano stati i boemi, non erano mancati fra i due fronti scambi di pagnotte e pacchetti di sigarette, in un’afasica rivincita dell’umanità conculcata) sarà, inaspettatamente, proprio il più valoroso, e decorato, dei veterani di Libia, ebbene, il tenente non si tratterrà dal gesto retorico di strappargli dal petto il nastrino della decorazione, commentando per sovrappiù «Via questi stracci, se han da portarli i vili!», pronto già, di suo, a prenderne il posto sotto il fuoco dei nemici, non fosse  il sottufficiale a richiamarlo al dovere: «Lu no!… Lu el dev no lassà el so post…».

Forse è meglio, dunque, leggere, in questo racconto di pur efficace calibratura narrativa, la Grande Guerra come nient’altro che un crogiolo in cui viene portata al calor bianco l’umana capacità di comportamento abnorme: perché questo è la “paura” del titolo, nell’ottica del tenente Alfani, e di De Roberto con lui; questo, allo stesso modo, il colpo di fucile che chiuderà il racconto facendo «schizzare il cervello [del veterano renitente] contro i sacchi del parapetto».

L’abnormità, in altre parole, che già neiViceré avevamo visto aggredire in maniera diversificata, ma mai altro che repulsiva, e perfino caricaturistica, i membri tutti degeneri del ceto dominate, al crinale del passaggio di potere – come ormai siamo abituati a chiamarlo, per un automatismo dettato da uno di quei rari casi in cui, per giunta nell’opera di un dichiarato epigono di De Roberto, la letteratura ha plasmato il linguaggio, ancor prima che la mentalità degli italiani – gattopardesco.

(Federico De Roberto, La paura e altri racconti della Grande Guerra, E/O, 2014, pp. 144, euro 14)

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