“The Following”: la seconda stagione

di / 9 aprile 2014

The Following ha tutte le carte in regola per essere un telefilm coinvolgente, a partire dal protagonista con una personalità complessa e tormentata, e un assassino con un modus operandi particolare, che utilizza i social network e la letteratura per compiere i suoi efferati omicidi.
Si potrebbe parlare di The Following in chiave moderna, sottolineando il ruolo dei media nella nostra società e coniugandolo alla necessità da parte dei giovani di sentirsi parte di un qualcosa, di un quadro generale in cui i singoli contribuiscono a scrivere una storia destinata a sconvolgere la collettività.
Si potrebbe considerare Joe Carroll un assassino romantico con dei forti ideali, per quanto moralmente discutibili, che crede nel suo operato e nella poetica della morte e del sacrificio.

Dico si potrebbe perché nel concreto, sebbene la base da cui si parte sia buona, la riuscita della poetica, degli ideali e dei personaggi è un buco nell’acqua e The Following diventa così un prodotto mediocre e poco credibile, colpa forse di un meccanismo che è stato sviluppato bene nel suo progetto ma a cui non è stato oliato il cuore del motore trainante.
Passi Kevin Bacon/Ryan Hardy, pienamente a suo agio nel vestire i panni di un ex agente al limite dell’alcolismo e in perenne lotta coi suoi demoni. Il problema vero di questa serie è – paradossalmente – l’assassino.
E l’assassino, in una storia di omicidi e di morte, deve come minimo fare paura, grazie alla sua lucida ferocia e il suo savoir-faire. E rivestendo il ruolo di guida per un gruppo di followers che lo ritiene un guru non può permettersi di vacillare.

Joe Carroll ci prova a essere un leader nato ma non ci riesce. La sua personalità sembra correre a volte sul filo dell’instabilità mentale, e ciò non va bene quando nel presentarlo ci è stato introdotto come un ex professore di letteratura consapevole della sua indole malvagia ma nonostante tutto in grado di trasformarla in arte, così da non tradire l’innata passione per la bellezza in ogni sua forma.
Inoltre è un peccato che la sua ossessione per Edgar Allan Poe lo porti esclusivamente a indossare la maschera del poeta e a cimentarsi in romanzetti stroncati dalla critica, quando lo spunto potrebbe contribuire alla creazione di un eroe neoromantico e struggente, capace di piegare le menti grazie al suo fascino intellettuale.

Se nella prima stagione Carrol pareva un minimo definito, nella seconda sembra invece che il nostro si muova a piede libero limitandosi a eliminare chiunque ostacoli il suo cammino.
E chissà perché il ritorno dopo la finta morte inscenata al faro non ha stupito nessuno, colpa forse del copione e di quella sensazione che lo spettatore combatte di continuo, ovvero prevedere le mosse degli sceneggiatori.
La ricerca di una setta da guidare sembra più una mania di controllo che non ha quasi nulla a che vedere con la celebrazione del sacrificio e la bellezza della morte intesa come quella sublimazione della vita che Carroll adora predicare.

Non me la sento di dire che The Following rappresenta un fiasco totale in quanto ci sono stati un paio di episodi della prima stagione ben costruiti, in grado di garantire l’effetto “fiato sospeso” e di provvedere a piacevoli colpi di scena, ma resta il fatto che un’idea buona resta un’idea buona e niente più se poi i personaggi vengono realizzati senza un’anima; Joe Carroll, finora, non ha una propria personalità e sembra un emule di tanti stereotipi poco originali: direi anzi che al momento non ha nulla di diverso dalle maschere che ama indossare.

 

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