Fare Quadrato

di / 12 giugno 2014

Dici il calcio, vabbé, il calcio, il calciotto, piuttosto. Il calciotto è la soluzione perfetta. Senza l’enormità dei centocinque metri per sessantacinque (la media) di un campo vero, senza la gabbia del trenta per venti del calcetto. Spazi grandi, non desolanti, ma grandi, possibilità di inventarsi tattici, di sostituire la tecnica con la corsa, il fiato con la posizione. Dà un’altra illusione, rispetto al calcio a cinque: quella di fare sul serio, di giocare come in televisione. Scivolate, rimesse laterali, lanci lunghi e profondità. «Dai iscriviamoci, così non abbiamo la rottura di dover trovare ogni volta qualcuno contro cui giocare. È tutto più facile così». Il Capitano, gambe lunghe da trampoliere e fisico da nuotatore, ci ha convinti così a ottobre. «Ma non è che poi tocca litigare perché è pieno di bori e di esaltati?», «No, no, sono tutti tranquilli, è facile», «Ma non è che ci massacrano a ogni partita?», «No, no, sono tutti tranquilli, è facile». Iscriviamoci al torneo, una squadra di amici, una cosa tranquilla, ci divertiamo e via. Esaltazione generale, adesioni, consenso. Tra compagni di scuola e amici di sempre viene fuori una squadra. Non basta. Viene chiamato un Cugino più piccolo – «No, no, lui è bravo, fidatevi, ha fatto calcio per tanti anni» – che non aspetta altro. C’è l’iscrizione, al girone 2 della serie B. Non è un torneo, è un campionato. Dodici squadre, andata e ritorno, ventitré partite, una a settimana, poi partite a eliminazione diretta in Champions League o Europa League, a seconda della posizione in classifica, contro le squadre degli altri gironi. Un impegno per tutto l’anno, in sostanza. Noi siamo il Sassuolo, anzi, l’U.S.S. Celtic Sassuolo. Unione sportiva, la seconda “S” sta per “saltuaria”. Il Celtic è dovuto alla maglia con cui giochiamo. Effettivamente è la maglia del Celtic, un’edizione speciale del 2007 per i quarant’anni dalla vittoria della Coppa dei Campioni del ’67, quella conquistata in finale contro l’Inter di Sarti, Burgnich, Picchi, Guarneri, Facchetti eccetera, a Lisbona, la prima volta che si assegnava la coppa con le grandi orecchie, tutta verde, molto bella. Solo che c’era già un altro Celtic iscritto al torneo e allora si è scelto il Sassuolo, goliardia e umiltà d’intenti. Insieme abbiamo già giocato tante volte, mai sul serio. Tra di noi nessuno ha trascorsi gloriosi da giovane promessa. La condizione atletica generale è buona, o almeno crediamo, pochi fenomeni, molto sacrificio. Vanno fatte delle amichevoli, prima di iniziare, per capire un po’ come siamo messi, «C’è la squadra di mio fratello, sono iscritti pure loro, in serie A, però». Finisce cinque a cinque. Il Cugino ne fa tre. Vista così viene da dire che tutto sommato si può fare, se quella è la serie A allora in serie B non dovremmo avere problemi. Invece i problemi arrivano subito.   

Le prime tre partite le perdiamo. Secche, brutali. Roba di cinque gol presi. C’è tempo per capire che “età” non vuole per forza dire “esperienza”, che tra i ventotto anni di media del Sassuolo e i ventidue delle altre squadre c’è la stessa differenza che c’è tra il camminare e il correre, tra “giocare” a calcio e giocare a calcio, che se l’attaccante avversario ha una ventina di chili in più non basta per definirlo scarso, perché quando tocca palla non la fa più vedere a nessuno, se non al portiere o al difensore che la vanno a raccogliere in fondo alla rete. Allora non basta giocare ogni settimana, bisogna allenarsi, compattare la squadra, fare altro oltre al campionato, giocare di più, per smettere di “giocare”, almeno un’altra volta a settimana. Si continua con le amichevoli con chi capita, gente più grande, sperando di non soffocare negli inseguimenti, gente che tira su una squadra diversa ogni volta. Il Capitano organizza una di queste amichevoli. Prima dell’inizio del campionato ci avevano fatto auto-convincere che in quel momento stessimo vivendo una sorta di preparazione atletica, una di quelle vere, con dei gradoni zemaniani mentali, il ritiro con tutta la squadra – ci spingiamo a pensare che le nostre ragazze non sono lì con noi perché lì non possono, non devono esserci – non a due passi dalle Dolomiti o con i piedi a mollo nella Dorea Baltea, ma sulle sponde del Tevere, dove all’altezza di Tor Di Quinto si sviluppa una serie sterminata di campi da calciotto, una zona che per fattezze, mancanza di illuminazione, vegetazione subnaturale, potrebbe ricordare una qualche brughiera doyliana. Ora le amichevoli sono una specie di obbligo punitivo settimanale. E il Capitano, che arriva in ritardo, che arriva sempre in ritardo – sacca in spalla mentre tutti quanti più o meno stiamo facendo finta che il nostro tentativo di fare stretching possa realmente combattere le tonnellate di acido lattico che circola nei nostri corpi – entra in campo e niente, si piega su sé stesso e si accascia. E lo fa senza neanche aver toccato il pallone. Caviglia rotta e fuori per tutto l’anno. Vivere certi micro drammi individuali ci fa sentire più vicini a quei giocatori che avrebbero potuto, ma che per un involontario attaccamento cronico all’infortunio, non hanno potuto – Pato, ad esempio.

Non è solo, il Capitano. C’è chi si è visto caviglie gonfiare a dismisura perché le amichevoli, anche a questo livello infimo, lo sono solo di nome, amichevoli, c’è chi si era illuso che il ginocchio già malandato potesse reggere, chi è stato atteso come un messia somigliante a Chris Martin per dare ordine e rigore al centrocampo che è durato in tutto una partita e un rigore sbagliato, prima di preferire l’integrità dei legamenti. Poi c’è Sunglasses, colonna portante della squadra, difensore roccioso con piedi educati che gioca con occhiali con elastico, come una star dell’NBA o Edgar Davids dopo il glaucoma, uno di quelli che al momento della decisione per iscriversi ha spinto di più affinché ci iscrivessimo: è il perno della difesa, la guida. Ha recuperato da un ginocchio a pezzi, pure lui, finalmente, ed è tornato a giocare segnando pure un gol. Una sera, a cena, mentre pensavamo che la squadra stesse iniziando a ingranare, e nonostante gli scarsi risultati la squadra stava iniziando a ingranare, ci confessa che ha trovato lavoro. Siamo contenti per lui e iniziamo a festeggiare. La confessione, però, non è terminata. Aggiunge che il lavoro è a Milano. Fingiamo di non capire. Sì, Milano, in Lombardia. Il gelo sceso in quegli attimi sulle nostre teste è, meschinamente, figlio del fatto che ci saremmo ritrovati ad affrontare un torneo lunghissimo senza scheletro storico e che la squadra sarebbe cambiata partita dopo partita, con persone sempre nuove, sconosciuti e semisconosciuti, «Ricordi quel tizio che abbiamo beccato a San Lorenzo qualche mese fa, completamente ubriaco? È una bestia», «Se quell’amico mio viene abbiamo svoltato, da ragazzino era un fenomeno», «Ma uno qualsiasi non lo troviamo?» senza poter tentare di creare un’identità di gioco; non il dispiacere nel pensare di dover affrontare la lontananza fisica di un amico. L’infortunio, in un torneo di calciotto, si porta appresso una drammaticità a cui seguono due possibilità: lo sfaldamento completo, la fine dei giochi, superficialità e pressappochismo, oppure l’entrata in scena di un concetto narrativo fondamentale per la storia di una squadra: il “Fare Quadrato”, in qualche modo riproporre in scala quello spirito epico americano che nello sport ha avuto probabilmente la massima rappresentazione nel discorso di Al Pacino in Ogni maledetta domenica di Oliver Stone. 
Ecco, a noi è accaduto qualcosa che è una via di mezzo.

Da un lato c’è l’evidenza invincibile del tempo che diventa materiale nel confronto brutale con una giovinezza che ci sfila al lato palla al piede, ostentando una condizione atletica che cinque, sei anni prima noi non conoscevamo neanche. Non avere ancora trent’anni e sentirne il doppio. Questo vuol dire confrontarsi con gente più giovane, arrogantemente arroccata in un’abitudine allo sport che vince i vodka Red Bull del sabato sera e gli aperitivi a Ponte Milvio con metabolismi ipersonici. È facile pensare di dire basta. Partecipare a un torneo del genere costa soldi, ma ancora di più tempo. Tempo per organizzare, tempo da distribuire. Vanno visti i turni del lavoro, per chi lavora la sera, vanno viste le trasferte di affari, per chi viaggia per lavoro. Vanno vinti mal di schiena, mal di denti e raffreddori, perché ogni singola defezione può creare il panico. Non avere più vent’anni vuol dire anche questo. Vuol dire che i polpacci possono tirare un certo punto e metterci molto tempo a smettere di fare male, vuol dire fare i conti con una dimensione ulteriore e adulta perché c’è chi non può venire perché deve stare a casa con le figlie, ogni tanto. Vuol dire rendersi conto che cinque anni fanno una bella differenza, quando si tratta di marcare o superare in velocità. E perdere sempre, considerando tutto questo, autorizza ogni delusione, ogni ripensamento. Fa passare la voglia e uccide l’entusiasmo. Ma è qui che subentra il riscatto ottuso dell'ostinazione, l'altro lato di una piccola epica senza pretese. Contro il tempo prevale l’organizzazione, il confronto fisico con corpi non ancora completamente formati, l’intelligenza di tanto calcio visto in televisione, ancor più che giocato, che aiuta a prendere contromisure per entusiasmi giovanili che sono soprattutto «Ho la palla io e non la passo finché non mi va». E allora il Sassuolo si organizza, diventa il Quadrato necessario, sfrutta centimetri ed età e raddrizza la rotta. Vengono selezionati i giocatori, si trovano un equilibrio e una rosa più o meno fissa, arrivano aiuti inattesi dalla Germania, da un amico emigrato, arbitro e professore di greco, che porta vittorie e amici capaci nel momento del bisogno. I punti piovono, il Cugino rischia la classifica dei cannonieri, la difesa diventa tra le meno battute. Si finisce quinti, a un passo dalla Champions League, con la rabbia per una sconfitta a tavolino per l’impossibilità fisica di tutta la squadra di raggiungere il campo. È un risultato inatteso.
Quando inizia la fase a eliminazione diretta si pensa di poter fare qualsiasi cosa. L’Europa League è praticamente già nostra, si dice nello spogliatoio. Si respira quel tipo di aria che precede i grandi avvenimenti, le grande vittorie, i cambiamenti epocali. Sentiamo che è la Storia a chiederci di andare avanti in Europa League. Veniamo eliminati al primo turno perdendo quattro a zero. Vista così sembra un massacro, ma non lo è. Abbiamo giocato con un uomo in meno, sette contro otto, tutto il tempo. E tutto il tempo abbiamo retto, fino a otto minuti dalla fine in cui le barriere sono crollate e i tiri avversari sono diventati gol. È stata una delle partite più faticose ed esaltanti della stagione, uno di quei momenti in cui capisci fino in fondo certe parole dette a fine partita da gente come Guidolin e Malesani, quando da un certo tipo di mediocrità devi tirare fuori qualcosa di completamente irrazionale, qualcosa che potrebbe definire il senso romantico – a qualsiasi livello –, sconnesso dalla dittatura del risultato, dello sport. E l’entusiasmo, in sé, è elemento irrazionale, sopraggiungere dell’emozione sulla logica. Abbiamo perso, ma siamo più bravi, abbiamo perso ma non importa, abbiamo perso ma non ci basta. Non sono bastate ventiquattro partite, milleduecento minuti di calcio a otto distribuiti in otto mesi. C’è un trofeo estivo in palio, una specie di mondiale in forma microscopica, organizzata dagli stessi del campionato. E allora si cede all’entusiasmo, e ci si lascia convincere tutti a continuare, a stringere di più il Quadrato, a fare altre partite, a spingere il Sassuolo più in là.

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