“Romantic Works” di Keaton Henson
di Luigi Ippoliti / 7 luglio 2014
A un anno di distanza dallo splendido Birthdays, Keaton Henson torna con Romantic Works. Definito da alcuni il Jeff Buckley inglese – appellativo probabilmente poco calzante, per approccio musicale, intenti, complessità dei due artisti, e che potrebbe sminuire il londinese a semplice epigono del più famoso collega statunitense –, il giovane musicista, poeta e disegnatore si prodiga in un nuovo lavoro che ha poco a che fare con i primi due album (oltre all’appena citato Birthdays, l’album d’esordio Dear). Registrato interamente nella sua camera a Londra, Romantic Works si colloca in uno spazio altro da tutto ciò che fino a ora è stato il prodotto artistico del poliedrico inglese.
La percezione che si ha di Keaton Henson, la voce tremante e sottilissima che canta di amori perduti, di incapacità nell’affrontare la vita e le relazioni umane, dell’inadeguatezza, del tempo che scorre ineluttabile, fa spazio a un Keaton Henson che rimane in silenzio e che lascia la ribalta in maniera esclusiva ad archi e pianoforti. Al violoncello in particolare, quello dell’amico Ren Ford, giovane musicista inglese, che collabora in tutti i brani.
Ed è in questo che Romantic Works può lasciare spiazzati – oltre all’assenza della chitarra elettrica riverberata che è l’altro suo marchio di fabbrica –, nel momento in cui per abitudine la voce da sempre accentratrice sparisce per far posto ad arrangiamenti strumentali che vibrano gracili nell’aria, un’idea di complessità musicale – che comunque si rifà a strutture pop – che ha in Philip Glass e nei suoi ispiratori di sempre, Elgar e Saint-Saëns, i principali modelli. Eppure, la voce di questo neo-romantico viene sempre ricercata, per essere rassicurati, perché sublimi la propria sofferenza insieme a noi attraverso i suoi dolorosi e impercettibili ululati all’amore; fino a quando Romantic Works non prende coscienza di sé, autodefinendosi per quello che è: un lavoro di Keaton Henson senza Keaton Henson. Ed è in quel momento che lo si può guardare nella sua totalità.
La partenza è una non partenza: “Preface” sono cinquantotto secondi di strumenti che vengono accordati. Subito dopo, “Elevator Song”, brano struggente che, forse per suggestioni che provengono dalle migliaia di fobie di cui è afflitto Henson (rinomata la sua paura di salire sul palco) potrebbe essere la descrizione della sensazione di claustrofobia derivata dal rimanere bloccati in ascensore – e ancora di più, nel momento in cui si alza l’intensità degli strumenti, il rumore dell’ascensore in picchiata fino allo schianto a terra, se in quell’ascensore ci fosse lui. La meditativa “Healah dancing” fa spazio al violoncello scuro e vibrante di Ren Ford in “Field”, una versione diurna di “Moon Trills” di Jonny Greenwood. In “Petrichor” piano e archi provano a far percepire l’odore della pioggia sulla terra asciutta, mentre “Earnestly yours” sembra l’equivalente al piano di “Sweetheart What Have You Done To Us”. Prima della chiusura con “Emissary”, inno alla propria epica individuale, “Nearly Curtains”, brano di nemmeno tre minuti in cui il piano fa da padrone.
La possibilità che Romantic Works possa risultare un album eccessivamente omogeneo è tangibile, l’impressione è che manchi quello spunto che splende in modo palese di luce propria (forse la sola “Elevator Song”) e che riesce a far brillare maggiormente tutto il resto. Ciò non toglie che sia un lavoro interessante, a tratti commovente – senza riuscire a fare un discorso profondo sulla fragilità dell’uomo come fa Birthdays – che può chiarire Keaton Henson non esclusivamente come cantautore folk intimista, ma come compositore e musicista in senso più ampio. Romantic Works è la scoperta di una zona d’ombra che potrebbe nel tempo uscire allo scoperto in maniera ancora più netta, sviluppando un discorso parallelo a ciò che finora è stato.
(Keaton Henson, Romantic Works, Oak Ten, 2014)
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