“Prendete mia suocera” di Howard Jacobson

di / 14 luglio 2014

Guy Abelman è uno scrittore inglese ed ebreo che non se la passa tanto bene. Naturalmente, giusto il tipo, ha un grande sense of humour, nonché una comica sudditanza verso la bellissima moglie cui, al cospetto di quello che lei ritiene un balordo che ha avuto un inopinato successo con il primo libro, insorge il capriccio di poter scrivere anche lei – idea invero avventurosa visto la sua totale assenza di talento. Non più perigliosa peraltro dei gusti stravaganti del marito, infatuato della suocera.

Benché si dicano tutti stanchi delle storie di scrittori che raccontano di scrittori, il materiale del romanzo Prendete mia suocera (Bompiani, 2014) parrebbe accattivante di per sé. Forse Howard Jacobson (l’autore, quello vero) non è alla sua prova migliore, ma la lettura è piacevole perché resta uno scrittore fra i migliori in circolazione in terra inglese – specie se parliamo di umorismo culto. Noto da noi per alcuni libri pubblicati dall’editore Cargo, fra cui Kalooki Nights e L’enigma di Finklercon il quale si è aggiudicatoil Man Booker Prize del 2010, Jacobson come sempre sfodera un romanzo non di trama – che considera giustamente poca cosa («macchinazione per bambini») – ma la consueta macchina di intelligenza e raffinata ironia che, pur partendo un po’ a fatica, diverte tenendo insieme grovigli erotico-sentimentali e sguardo su un mondo afflitto da stupidità moralistiche molto conformistiche – di quelle indiziarie di un cambiamento storico segnato dall’agonia della lettura (di libri di qualità, anche negli ambienti che si vorrebbero più attrezzati).

La letteratura appare un campo sempre più abbandonato («dai lettori», dice Jacobson), sì che il povero Abelman è costretto ad attraversarlo come si attraversa un deserto del quale pochi comprendono (e tentano di salvarne) la bellezza. Essa vive di tempi lenti e lunghi e pare soccombere dinanzi alla superfetazione della comunicazione digitale. Lo stesso mondo editoriale pare più un superstite comprimario che una vittima della svolta. Nessun lamento, per carità, ma la lucida consapevolezza che oggi è un problema tanto di lettori che di scrittori: i primi vogliono pappette pronte e facilmente digeribili, i secondi si danno spesso ai libri di ricette venduti come romanzi. Abelman e Jacobson ci ridono sopra – ché non resta molto altro da fare. Cercano di salvarsi, il personaggio tentando di dimenticare attraverso l’ossessione della suocera la cupezza di non vedere mai un suo romanzo nella vetrina di una libreria (Scimmie gli ha dato anni prima un po’ di gloria, vero, e anche la possibilità si portarsi a letto la sventurata inserviente di uno zoo adusa a masturbare le tigri per calmarle, ma poi era stato dimenticato e seppellito nel famigerato “Catalogo” dell’editore – l’equivalente di una morte civile), lo scrittore di Kalooki Nights dimostrando che, ci fossero lettori, ancora esisterebbe qualche scrittore in grado di fare libri belli e spassosi insieme, capaci di far ridere su faccende come il sesso, l’amore, la triste vita degli editor e il punto e virgola. Senza con questo compiacere tutti. Forse Jacobson non è Roth, o Amis, ma per fortuna nemmeno Piccolo.

(Howard Jacobson, Prendete mia suocera, trad. di Milena Zemira Ciccimarra, Bompiani, pp. 448, euro 19)

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